Le ombre calate su Nguaiata non erano dissimili da quelle politiche che avvolgevano nelle stesse ore la nazione intera. Una nuova crisi di governo si era abbattuta sull’esecutivo, scatenata da un componente dello stesso in cerca di maggior potere. L’avvocato Alfonso De Benedictis guardava alla tv la faccia scomposta in tante smorfie di dissenso simulato dell’esponente politico in questione, durante il discorso alla Camera dei deputati del Presidente del Consiglio dei ministri che rimetteva in diretta il mandato parlamentare, rassegnando le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica. Il Paese era da poco più di un anno in mano a due bande di scellerati arroganti e presuntuosi che avevano allestito un reality show permanente in cui si scambiavano la parte di conduttore e concorrente a fasi alterne, secondo i gusti momentanei del grande pubblico in ascolto, notoriamente distratto. Le due coalizioni, affini come cane e gatto, avevano riempito transitoriamente la casella fungibile della guida del Paese in caduta libera e le loro fantasiose dichiarazioni, volta per volta, avevano certificato che: il debito pubblico continuava a salire verso vette stratosferiche; la disoccupazione era fuori controllo; la povertà continuava a investire fasce della popolazione sempre più ampie; non esisteva un piano di sviluppo economico; la produzione industriale era definitivamente cessata; la sanità pubblica non assisteva più nessuno; l’istruzione era stata sopraffatta dall’analfabetismo di ritorno; come agli inizi del secolo precedente, era ricominciata l’emigrazione, non soltanto giovanile, verso altri paesi europei ed extraeuropei; gli anziani erano abbandonati a se stessi; esistevano, ormai, più di ottocento contratti di lavoro subordinato ma non veniva mai menzionata chiaramente la schiavitù; il dissesto idrogeologico del territorio era al picco massimo; la criminalità organizzata era penetrata nei gangli istituzionali; lo spread era incalcolabile; lo sviluppo del turismo, l’unica vera fabbrica nazionale, era affidato alla buona volontà di singole associazioni; la qualità della vita era peggiorata nettamente nonostante aumentasse, per dispetto, l’aspettativa della stessa; la sfiducia era il sentimento imperante in ogni regione e provincia; la cultura continuava a non dar da mangiare nemmeno ai colti, figurarsi agli incliti; la nazionale di calcio non riusciva più a qualificarsi ai campionati mondiali e neppure agli europei. Un tuono aveva preannunciato l’arrivo di un nuovo temporale. La città era da sempre abituata al cattivo tempo ma negli ultimi anni non sapeva più godere neppure di una giornata di sole fuori stagione. L’avvocato De Benedictis aveva affondato le membra infreddolite nella comoda e lussuosa poltrona di pelle. Leggermente intorpidito dal brandy sorseggiato, si era sintonizzato sul canale locale all’approssimarsi del notiziario notturno, avido dei commenti giornalistici sulle imminenti elezioni amministrative, curioso se il suo nome in corsa fosse trapelato e pronunciato con sussiego. Era rimasto, però, invischiato nella tela dell’interminabile pubblicità che lo aveva affossato nel mondo dei sogni senza esaudirgli il desiderio di essere confermato una volta per tutte sindaco, prima di potersi dedicare a ben più alti e improrogabili compiti.
La domenica mattina, pensava Mimmo Perullo stravaccato sulla sua sedia in portineria, era per lui il giorno peggiore della settimana. Di sabato, senza la seccatura di dover essere al lavoro alle otto, avrebbe potuto dormire fino alle dieci, fare un’abbondante colazione con caffelatte e biscotti, andare a leggere i giornali al bar bevendo un caffè, sbraitare con gli altri avventori sugli argomenti del giorno riportati dalle televisioni nazionali quali calcio, politica e cronaca spicciola – con un cipiglio apatico e superficiale – o sulle ultime vicende cittadine quali calcio, politica e cronaca spicciola – con un’aria indolente e incurante. Quindi avrebbe ordinato un altro caffè, guardandosi bene dall’offrirne a chicchessia, sorseggiandolo in piedi al banco e sarebbe tornato a casa lanciando occhiatacce di disprezzo ai giovani ragazzi di colore fermi sulla soglia dei negozi col cappello in mano a chiedere altri euro, oltre i trentacinque giornalieri che ricevevano dallo Stato per soggiornare negli alberghi a cinque stelle con vitto e alloggio gratuiti, oziando tutto il tempo con vestiti alla moda e telefonini di marca in mano. Uno schifo! tutto a nostre spese, avrebbe pensato, alla faccia degli italiani che non ce la facevano ad arrivare alla fine del mese. Aveva proprio ragione quel leader secessionista, sovranista, razzista e populista a tener chiusi i porti per impedire l’accesso a quei finti disperati del mare che viaggiavano in taxi nel Mediterraneo e approfittavano del buon cuore degli italiani, esibendo sulla battigia bambole per bambini a uso di telecamere. Avrebbe pranzato e cenato, sonnecchiato e riposato dalle fatiche settimanali guardando fino a notte inoltrata partite di calcio dei campionati professionistici di prima, seconda e terza serie. Ma la domenica no. Sua moglie Concettina – l’angelo del focolare domestico, la regina dei fornelli, la maga delle pulizie, moglie e madre esemplare, devota allo sposo fino a che morte non fosse sopraggiunta, padrona della casa e schiava del marito, muta e obbediente – la domenica mattina reclamava la libera uscita come tutte le cameriere del mondo, accompagnata dal legittimo consorte alla messa festiva e alla passeggiata lungo il corso cittadino facendo più vasche di una squadra di nuotatori olimpionici in allenamento, col vestito buono e le scarpe strette, su e giù fino all’ora di pranzo (già pronto dalla sera prima, in forno da scaldare). Condita dalle chiacchiere con le comari e le conoscenti e le amiche e i parenti vicini e lontani, una sosta e via, un’altra e via ancora: uno sfinimento mortale! due palle gigantesche! Mimmo Perullo avrebbe piuttosto preferito una traversata burrascosa dalla Libia a Lampedusa su una bagnarola nel mare nostrum, lontano dalle malefiche ong complici dei trafficanti. A sostenerlo in vita durante quello strazio prolungato, cominciato all’ingresso in chiesa, era la visualizzazione della teglia di pasta al forno con polpette al sugo, l’arrosto di carne con patate, la bottiglia di aglianico rosso, il babà al rum e la sfogliatella riccia, la tazzina di caffè nero bollente e il bicchierino di nocino fatto in casa.
Lucia Speranza era figlia unica. I suoi genitori si erano trasferiti a Nguaiata, provenienti dalla provincia, per via del lavoro del padre che aveva vinto il concorso nella Motorizzazione Civile grazie ai buoni uffici del parroco e del segretario comunale del suo paesello. Erano persone miti e schive, di estrazione contadina, orgogliose e dignitose, timorose del giudizio della gente, meno di quello di Dio che comunque frequentavano regolarmente la domenica a messa perché era nella loro natura evitare qualsiasi conflitto: umano, naturale e divino, per quieto vivere. Dopo qualche anno di matrimonio era arrivata la figlia con una gravidanza difficile (come le precedenti non andate a buon fine) conclusa con l’aiuto del forcipe, alla quale non ne erano seguite altre. La ragazzina aveva un carattere indisciplinato e irrequieto, fonte d’imbarazzo per i genitori in più di un’occasione, sboccata e aggressiva non scartava l’uso delle maniere forti per ottenere ciò che voleva, fosse stata una bambola nelle mani di un’altra bambina. A niente erano servite le punizioni, anche corporali, rimaneva indomita e testarda, recalcitrante alle buone maniere che tentavano di inculcarle senza urlare (per via dei vicini). Quando aveva iniziato a frequentare le elementari si erano affidati e avevano sperato nella maestra, una donna anziana e paziente. Lucia presentava difficoltà di concentrazione e apprendimento delle materie scolastiche, aveva faticato non poco per imparare a leggere e scrivere e bisognava seguirla con dedizione totale a casa affinché svolgesse i compiti assegnati. Era stata mandata al doposcuola da una supplente disoccupata che si era accontentata di un compenso accettabile per le tasche del padre che con il solo stipendio doveva far quadrare i conti di casa. Questo fino all’età di otto anni quando la bimba era stata trovata seminuda da un bidello nei bagni maschili della scuola tra quattro o cinque coetanei impauriti e piangenti con i pantaloncini e le mutandine a terra, così come gli uccellini incerti tra le tante mani di Lucia. La quale era stata istantaneamente ritirata dalla scuola pubblica e iscritta a un collegio femminile di suore nel quale rimaneva come semiconvittrice fino al tardo pomeriggio (per non pesare troppo sul bilancio familiare). C’era restata fino al diploma triennale magistrale, conseguito all’età di diciassette anni senza infamia e senza lode. Quando era uscita dall’istituto religioso aveva imparato a stare a tavola composta, a rimanere seduta al banco in classe, ad alzare la mano prima di prendere la parola, a pregare tre volte al giorno e a comportarsi come ogni buon cristiano. Senza dare troppo nell’occhio o suscitare apertamente scandalo, una bella facciata di buone maniere e comportamenti inappuntabili per dar sfogo agli impulsi e agli istinti primordiali dentro le gallerie poco illuminate delle proprie catacombe interiori. Mai nessuna lezione Lucia Speranza aveva imparato così bene e relativamente in fretta.
Nonostante le poche ore di permanenza nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura in regime di trattamento sanitario, Carmine Abbascio, sebbene non fosse stato a lungo maltrattato, non si sarebbe mai più sbarazzato dal turbamento della coercizione cui era stato sottoposto dal momento del proprio fermo in strada fino all’ingresso nel presidio di salute mentale, dove l’imposizione aleggiante esercitava una pressione di mano in mano maggiore fino alla naturale sopraffazione. Pertanto non fu più naturale per nessuno, dai genitori ai parenti, abbracciarlo, accarezzarlo, semplicemente toccarlo o sfiorarlo, tendergli la mano o salutarlo muovendo le dita. In sua presenza era meglio non agitare o spostare gli arti superiori e inferiori, scuotere la testa, scaccolarsi o grattarsi. Persino portare l’indice al naso in segno di silenzio gli provocava ansie e timori. In casa, una volta rientrato dal breve ricovero, ci si muoveva con la stessa vivacità delle mummie in un sarcofago, ben attenti a non scuotere l’aria, a parlare così sottovoce che neanche a un funerale, si guardava la televisione con gli auricolari, si parlava al telefono con la mano davanti alla bocca e si aprivano le finestre dai doppi vetri isolanti solamente in caso di necessità, considerando l’inquinamento acustico che proveniva dalle strade di Nguaiata. Sarebbe bastata una sola mossa falsa per mandare all’aria tutta la serie di movimenti sincronizzati attuati al
raggiungimento e conservazione del silenzio assoluto, una riproduzione della morte in vita. Fortunatamente i genitori di Carmine non avevano problemi economici. Essendo benestanti potevano permettere al figlio di godere delle cure dei migliori psichiatri e psicologi della città, non erano costretti a rivolgersi alle unità operative di salute mentale del servizio pubblico sanitario, di per sé affossato dalla mala gestione politica e amministrativa regionale, ma ancor
di più insoddisfacente nei servizi psichiatrici per assenza di strutture, personale e terapie adeguate. Talvolta avevano varcato i confini regionali usufruendo delle prestazioni private di luminari nel nord del Paese, tenendosi, comunque, alla larga dal pubblico, malgrado la quantità di istituti di ricovero. Sembrava che la malattia mentale nell’intero Paese non avesse mai goduto di buona salute, soprattutto dopo la legge che aveva spalancato le porte dei manicomi, con buona pace dei pazienti afflitti e dei familiari lasciati in solitudine e sofferenza.
Pietro Taùto ricordò, tra i fumi dell’alcol e quelli dell’ennesima sigaretta, il giorno della sua irruzione nell’Istituto dell’Inps. Parcheggiata l’auto con i finestrini aperti e le chiavi inserite nel cruscotto (come deterrente per i vigili urbani, che non avrebbero inflitto la multa per istigazione al furto, giammai per sosta vietata, ma che avrebbero percepito la volontà del conducente di tornare quanto prima), Pietro aveva varcato la stretta soglia del cancello dell’Inps e imboccato la larga via che conduceva agli sportelli. La folla al solito era enorme, le sedie della sala d’attesa piene, tante persone in piedi, tutte con un bigliettino numerato in mano. Il Taùto cercava come sempre di fare il furbo eludendo la fila ma era stato subito bloccato dalla guardia giurata addetta al rilascio del ticket di smistamento della macchinetta emettitrice, come un qualsiasi volontario nelle aziende sanitarie locali, perlopiù settentrionali. Tal Salvatore Perullo gli stava chiedendo cosa dovesse fare, pronto a schiacciare il tasto giusto di rilascio. Ignorato dall’utente in questione aveva rifatto la domanda senza ottenere alcuna risposta, se non un invito gestuale a farsi gli affari suoi che ai propri ci avrebbe pensato da sé. Dal momento che l’utente indisciplinato aveva provato ad addentrarsi direttamente ai piani superiori tentando con una mossa fulminea di imboccare le scale interne, la guardia lo aveva afferrato alle spalle, bloccandolo. Pietro Taùto si era divincolato dalla presa floscia e stava salendo di corsa i gradini a due a due aiutandosi col corrimano, inseguito da Salvatore che aveva estratto la pistola in dotazione dalla fondina. Abile nelle fughe, raggiunto il secondo piano dell’edificio, aveva spalancato la porta della stanza che ben conosceva, delle Richieste di assistenza e sostegno ai disoccupati invalidi, dove i due impiegati alle scrivanie, uno intento alla consultazione di siti porno, l’altra di ricette gastronomiche, lo avevano fatto accomodare per compilare la solita domanda prestampata da allegare alla diagnosi del medico legale, convalidata dall’Asl e presentata online da un patronato. Il Taùto, da uomo di mondo, aveva messo sul tavolo il ricavato delle ultime vincite alle carte, al gratta e vinci, al totogol e al superenalotto, per un totale di quattrocentonovantotto euro in banconote da venti e monete da due formando sul tavolo un gruzzoletto spiegazzato, voluminoso e tintinnante, tra lo sbalordimento contenuto dei due dipendenti che a certe latitudini erano avvezzi a comportamenti fuori dalle righe, a protocolli non ufficiali e anche a quantificare l’entità dei supporti atti a velocizzare pratiche giacenti, in rapporto al proprio introito lordo mensile regolarmente retribuito. Scambiatosi un rapido sguardo d’intesa tra loro, stavano per allungare le mani su quella strana bustarella del valore di un francobollo quando aveva fatto irruzione nella stanza la guardia giurata con la pistola spianata, provocando la contemporanea alzata di mani dei due infedeli colti in flagranza.
Le disavventure di Piglio non erano affatto terminate una volta tratto in salvo dal peschereccio, i cui componenti avrebbero potuto infrangere qualsiasi legge al di fuori di quella del mare. Era anche capitato loro di mantenere a bordo la plastica raccolta dalle reti, assieme al pescato, anziché ributtarla in mare come avrebbe prescritto un’altra legge fuor di logica, rischiando così d’incorrere in una sanzione certa. Il capitano dell’imbarcazione aveva avvertito via radio la guardia costiera dell’avvenuto salvataggio e in attesa di disposizioni si apprestava a rientrare in porto, nonostante la giornata lavorativa non fosse neanche cominciata. Avevano incrociato un battello di un’organizzazione non governativa che era diretto nel porto più vicino per sbarcare i naufraghi a bordo e che si era dichiarato disponibile ad accogliere anche gli altri, tra cui Piglio. Una volta effettuato il trasbordo, con mare mosso e quindi in condizioni di forte instabilità e pericolo, era ripresa la rotta verso la salvezza. Ma al limite delle acque territoriali nazionali, una motovedetta della Guardia di Finanza aveva il compito di pattugliamento, secondo le recenti direttive governative, per impedire l’ingresso nelle suddette acque a qualsivoglia imbarcazione trasportante disperati del mare. La nave dell’ong aveva ancorato lontano dalla terraferma in bella vista dal mare, fino a che non erano terminate le provviste, finita l’acqua, aggravati gli ammalati e tuffati in acqua gli esasperati. Infine, decisa la ripartizione delle quote di superstiti, era stato autorizzato lo sbarco dei numeri a mollo i quali, non appena identificati e marchiati, erano stati internati nel punto di primissimo smistamento. E buonanotte a Piglio, stanco morto ma vivo.

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