Aveva smesso di piovere ma l’avvocato Alfonso De Benedictis continuava a rimanere assorto sulla sua poltrona. Si era versato due dita di brandy in un bicchiere ballon che reggeva racchiuso in una mano, nell’altra il sigaro spento dopo un paio di boccate. Inutile tirare a indovinare i suoi pensieri. L’attività politica non lo aveva mai attratto davvero se non per le inevitabili necessità di carriera, non si era mai voluto impegnare in prima persona contribuendo a far sì che fossero altri ad agire anche per i suoi interessi. C’erano stati tempi difficili, specialmente a Nguaiata. Fino a quando non era sceso in campo un unto del Signore che aveva scombussolato gioco, giocatori e magliette, sparigliando i poli come il truffatore delle tre carte sul banchetto volante lasciando che i sinistrorsi diventassero destrorsi, questi ultimi rimanessero tali e i centristi convergessero ora a destra ora a sinistra e ancora daccapo, all’infinito per vent’anni. Col risultato che, a una tornata elettorale, una tessera di centrosinistra alla successiva fosse buona per il centrodestra e i centristi ondeggiassero da un lato all’altro fino a confondere irrimediabilmente l’elettorato che nel giro di pochi anni non sarebbe più servito a determinare i governi del Paese. Una democrazia calata dall’alto, in definitiva. Con l’avvento dell’unto era nata la seconda repubblica con il suo circo Barnum di comprimari subentrati sul palco – squadristi ripuliti, volgari secessionisti, analfabeti di andata e ritorno, pregiudicati – che in poco meno di dieci anni avevano svuotato di sostanza l’apparato statale (trasformandolo da pubblico a privato) e di senso le parole (significanti il contrario). Ora la terza repubblica in cui l’avvocato De Benedictis si apprestava a entrare in scena da una porta secondaria, figlia legittima della precedente, era una corte dei miracoli popolata da accattoni umani e arroganti bestiali dediti alle piattaforme informatiche e ai social network, al cui interno se la cantavano e suonavano con un seguito di utenti registrati che da secoli aveva perso di vista la realtà, la cui essenza si era ridotta nel battito anonimo di una tastiera. Ma lui, Alfonso, un titolo vero almeno ce l’aveva rispetto a quella marmaglia, desueto da decenni: la laurea. Specializzandosi in massoneria e criminalità organizzata non avrebbe avuto rivali. Aveva bevuto fino in fondo dal ballon e riacceso il sigaro. La città era sempre laggiù in basso, ai suoi piedi.
Mimmo Perullo era ritornato nella guardiola. Era il suo turno, tra i cinque uscieri presenti (gli altri tre erano in malattia) di presenziare seduto davanti al vetro dello sportello informazioni. Aveva appena aperto il giornale locale quando un’anziana si era avvicinata all’oblò, subito allontanata dal suo sguardo fulminante, un Giove Pluvio basso e pelato dalla pancia prominente. Man mano che sfogliava il quotidiano leggeva che: la squadra di calcio e quella di basket navigavano in bruttissime acque economiche, prossime al fallimento, in quanto il proprietario (titolare di un’azienda energetica con concessione comunale in deroga) era sommerso dai debiti e inquisito in città per evasione tributaria ed emissione di fatture false; i lavoratori della stessa azienda rischiavano di perdere il lavoro, altre centinaia di posti che si sarebbero aggiunti alla media catastrofica della disoccupazione soprattutto quella giovanile, un mondo già funestato da un numero impressionante di abbandoni scolastici ed esiguità di diplomati – meno che mai di laureati – e di assenza di corsi di formazione; la provincia di Nguaiata, tra le ultime per reddito pro capite, era tra le prime nel Paese per numero di suicidi, molto elevato tra le persone di mezza età e di sesso maschile, principalmente per motivi di carattere economico; continuavano a
chiudere i negozi al dettaglio di ordine molteplice e, sempre alla voce commercio, anche le aziende della grande distribuzione alimentare, le catene dell’abbigliamento e del calzaturiero, così come dell’elettronica e del bricolage, evitavano di aprire punti vendita per carenza di utili e utenza; erano insufficienti i cinema, le biblioteche, le librerie, i teatri, i luoghi di aggregazione per i giovani e per gli anziani, le strutture sportive pubbliche e private; cresceva tra i giovanissimi l’abuso di tabacco, alcolici e droghe; aumentavano i casi di vandalismo e di violenza, di mancanza di senso civico; negli ultimi anni era decuplicata la quantità di persone che riprendeva a emigrare come agli inizi del secolo precedente, non soltanto giovani ma anche
cinquantenni non ricollocabili sul mercato lavorativo; le opere pubbliche erano bloccate da decenni nonostante l’insufficienza delle infrastrutture principali come strade e ferrovie; la criminalità continuava a infiltrarsi nel tessuto cittadino; aumentavano gli anziani in completa solitudine, non autosufficienti o malati, abbandonati e sprovvisti di qualsiasi tipo di sostegno; le liste di attesa nella sanità pubblica avevano tempi biblici e i posti letto negli ospedali erano in costante diminuzione; gli edifici scolastici erano privi delle più elementari norme di sicurezza, in primo luogo quelle antisismiche; mancavano gli spazi verdi, le linee di trasporto, gli asili nido e i campi estivi, i loculi al cimitero, le strisce pedonali e persino le aree recintate per i cani che continuavano a riempire di escrementi i marciapiedi tra l’indifferenza dei padroni. Mimmo Perullo stava pensando ad alta voce: chissenefotte! facendo immediatamente allontanare un utente che aveva appena iniziato a esporre cortesemente la propria richiesta. Aveva ripiegato il quotidiano scagliandolo tra la carta da macero e si era tuffato a pesce nella lettura della gazzetta sportiva, di un bel colore rosa.
E finalmente era venuto il giorno dell’agognato matrimonio, sogno di una vita intera. Lucia Speranza non stava più nella pelle mentre la parrucchiera, arrivata a casa, le sistemava i capelli in uno chignon e provvedeva a un accurato manicure. I suoi genitori erano pronti da un pezzo, la madre la seguiva come una damigella sollecita a eseguire ogni piccolo comando, il padre attendeva che arrivasse la costosa auto noleggiata (una Mercedes station wagon nera che gli sembrava un carro da morto), considerato che la sua dimessa utilitaria Fiat, il catorcio Volkswagen dello sposo e la vetusta berlina Skoda del consuocero non soddisfacevano affatto i
desideri della principessa. Una spesa superflua per il suo modesto stipendio di solerte impiegato della Motorizzazione Civile, prossimo alla pensione, aggiunta alla cospicua somma attinta dai suoi miseri risparmi di una vita, saggiamente amministrati dalla sua consorte casalinga. Meno male che aveva da poco estinto il mutuo trentennale della casa e che presto avrebbe incassato il trattamento di fine rapporto di oltre quarant’anni di impiego, un toccasana per le sue finanze dissanguate dalla cerimonia faraonica e dal ricevimento regale preteso dalla sua esosa figlia. Non aveva neanche potuto contare sul contributo del padre dello sposo, un egoista tirchio e rabbioso che, a conti fatti, aveva ripagato a stento con il suo misero obolo il costo del banchetto per se stesso e la moglie, neanche per il figlio, adducendo il pretesto che, da tradizione, l’onere toccava alla famiglia della sposa. E il servizio fotografico? Avrebbe potuto riempire le pagine di un rotocalco. Meno male che la crociera del viaggio di nozze era stata vinta da quella santa di sua moglie con i punti raccolti in ben dieci anni di spesa al supermercato sotto casa, altrimenti
quella nobildonna della figlia avrebbe preteso la vacanza esotica alle Maldive. Certo, come no? L’avrebbe mandata volentieri su un atollo deserto del Pacifico, dove gli americani facevano gli esperimenti nucleari, così forse sarebbe tornata coi piedi per terra, lei con quel coglione di suo marito. Lucia Speranza, indossato l’abito da sposa da sogno, scendeva le scale della palazzina popolare di due piani senza ascensore con i figli seienni di sua cugina in veste di paggetti che le reggevano lo strascico regale. Dalle finestre dei palazzi di fronte, qualcuno lanciava un applauso non raccolto, cui facevano seguito due urlacci sguaiati e tre fischi da mandriano. Si accomodava
nell’auto in attesa con la portiera retta dall’autista in evidente stato di frenesia da stupefacente inalato, oltremodo cortese e premuroso, che ripartiva a colpi di clacson ripetuti e prolungati nell’aria sonnolenta di un mattino domenicale in un quartiere dormitorio, accompagnati da sonori e riecheggianti vaffanculo. Arrivata al Duomo, scesa dalla macchina nuovamente strombazzante, dava il braccio al padre che, salendo la scalinata antica, ricordava la trattativa spossante con l’avido vescovo della diocesi. Superato il maestoso portone, cominciavano ad attraversare la navata centrale fra due ali di folla sorridente in ghingheri, tutti in piedi al loro passaggio e, a mano a mano che si voltavano, Lucia Speranza vedeva che gli sfarzosi abiti coprivano solo il davanti degli invitati mentre dietro erano scoperti, spalle e natiche nude. Così Salvatore in trepidazione sull’altare, elegante nel suo lussuoso tight, non appena si girava dopo averla affiancata, rivelava la sua completa nudità dalla nuca ai talloni. L’arciprete cominciava la celebrazione con fare ieratico senza scomporsi intanto che, dirigendosi al pulpito, mostrava schiena e deretano scoperti dal paramento liturgico dimezzato. Lucia Speranza stava sobbalzando quando la testa era ricaduta contro il volante. Aveva aperto di scatto gli occhi in un silenzio irreale sulla fila di automobili ferme. Non c’erano segni che la marcia potesse riprendere, nemmeno quella nuziale sognata, tutto bloccato, non si andava più avanti, nemmeno quel poco fatto fino ad allora. Il telefono si stava scaricando. Schiacciata la sicura delle portiere,
aveva ripreso a dormire con il desiderio di un domani migliore.
Carmine Abbascio, allorquando era stato prelevato di forza all’uscita dalla biblioteca, era arrivato in ambulanza nel presidio ospedaliero dell’azienda sanitaria locale (da anni commissariata per alto deficit), destinato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Il servizio, benché facesse parte della stessa struttura, era ubicato in una palazzina fatiscente adiacente. Era stato condotto, immobilizzato sulla barella, attraverso corridoi maleodoranti con l’intonaco scrostato. Superando porte di vetro ermeticamente chiuse sormontate da telecamere e dotate di videocitofono, era giunto nel reparto di diciotto posti letto varcando una pesante porta di ferro chiusa dall’interno. Sollevato da due infermieri che, con modi spicci, lo avevano slegato dalla barella, era stato condotto davanti al primario in persona. Il quale, dopo averlo osservato con l’abituale superficialità riservata ai disgraziati catapultati con ritmo vieppiù crescente dall’impazzita Nguaiata e avergli fatto firmare un foglio in cui accettava il trattamento volontario anziché obbligatorio, aveva fatto un cenno ai due energumeni presenti nella stanza che, risollevatolo dalla sedia – neanche il tempo di essersi seduto – lo avevano rinchiuso in una camera dove in un baleno era stato sedato, spogliato e infilato a letto, debitamente contenuto con lacci ai polsi e alle caviglie. Quindi erano usciti nel corridoio tra segregati deambulanti da un capo all’altro della corsia. Carmine si apprestava così a trascorrere i canonici due giorni nel fiume Lete quando era intervenuto a salvarlo dall’isola dei dannati la sua famiglia avvisata dall’autorità competente. Il padre, direttore di banca, e la madre, dirigente dell’ufficio del Catasto, componenti della città bene, si erano rivolti immediatamente allo studio legale associato De Benedictis che si era presentato con un rappresentante delegato nel reparto psichiatrico, esigendo la visione del paziente internato. Gli era stato risposto che quest’ultimo stava riposando in camera e mostrato lo scarabocchio sul foglio con cui aveva accettato di sottoporsi di propria intenzione alle cure mediche. Sollecitate dall’indignazione dei genitori in afflizione, erano intercorse telefonate tra l’avvocato De Benedictis in persona e il primario del reparto infernale che aveva autorizzato il trasferimento del degente nell’attiguo nosocomio per le cure del caso (nella fattispecie, un dolce risveglio). Il paziente, nonostante la violenza degli eventi susseguiti all’uscita dalla biblioteca, non avrebbe mai più dimenticato il senso profondo di quiete chimica inoculata nel suo traballante sistema nervoso, lasciandosi cullare altri tre giorni dalla pace psicofarmacologica all’interno della bolla di vetro in cui era scomparso il suo
corpo fisico. Perlomeno fino all’alba del quarto giorno quando si erano dissolti gli effluvi soporiferi che lo avevano rispedito dal mondo astrale a quello materiale, rifugiato nella comodità della sua casa, seppure nell’inferno di Nguaiata, le cui fiamme non avevano mai smesso di lambire il sesto piano della sua stanza semibuia.
Pietro Taùto, nella perenne attesa della vincita che gli avrebbe cambiato la vita, aveva acquistato due gratta e vinci da un euro e una scheda precompilata del superenalotto da due euro più due pacchetti di sigarette. La vendita di questi biglietti era così elevata in città, l’unico bene di consumo che non conosceva crisi, tanto che le strade erano ricoperte dalla patina removibile argentata più che da asfalto scadente, allo stesso modo delle acque reflue nelle fogne delle metropoli intrise di cocaina o delle microplastiche negli oceani. Ritrovata l’auto parcheggiata sul
marciapiede si era diretto sulla variante cittadina dal rivenditore abusivo di bombole di gpl per ricaricare il serbatoio del gas – mai collaudato – del suo veicolo, sprovvisto da anni del tagliando dell’assicurazione e da sempre del bollo di circolazione nonché della revisione biennale, sottoposto dall’acquisto di terza mano – non registrato alla motorizzazione – a fermo amministrativo, mai ottemperato. Ripartito tra una nuvola di fumo nero pestilenziale fuoriuscito
dalla marmitta fissata con filo di ferro al paraurti, sgommando sulla terra battuta con gli pneumatici lisci si era immesso nel flusso del traffico senza rispettare lo stop né azionare gli indicatori di direzione (peraltro fulminati) rispondendo col gestaccio delle corna alle imprecazioni sonore degli automobilisti che, di norma, si comportavano allo stesso modo del Taùto nell’atto di dare la precedenza, sempre solleciti, però, nel richiederla. Rispettare le regole era un dovere per tutti gli altri ma un diritto inalienabile per sé stessi eluderle o interpretarle. E non solo a Nguaiata, per fortuna o purtroppo. Sfrecciava a cento all’ora davanti all’autovelox truccato, percorreva il viadotto dai piloni d’argilla provvisto ai bordi di new jersey non ancorati al fondo stradale, superava il semaforo sul giallo da mezzo secondo, s’immetteva sul viale dei platani secolari abbattuti da anni, imboccava contromano i sensi unici a giorni alternati con i segnali stradali girevoli, circumnavigava a vista le rotonde cieche con erba alta come palme e finalmente stava parcheggiando, con un ultimo colpo d’acceleratore assordante, in sosta vietata, dinanzi al palazzo della fantomatica e famigerata Previdenza Sociale, a quell’ora chiusa al pubblico da un pezzo.
Piglio era solito non defecare nei paraggi del suo giaciglio ma si dirigeva fino a una specie di giardinetto, un’aiuola d’erba spelacchiata ingombra di cartacce, plastiche e bottiglie vuote. Dopo
aver espletato l’atto, di regola provvedeva alla rimozione dei propri escrementi per mezzo delle zampe, sospingendoli nelle bocche aperte delle fogne ai bordi dei marciapiedi. Avrebbe potuto fare i suoi bisogni direttamente sul ciglio della strada ma preferiva fungere da modello (non imitato) per gli altri esemplari canini, purtroppo in compagnia di umani indifferenti per indole. Talvolta, quando la misura era colma, si occupava personalmente della raccolta delle deiezioni sparse là intorno grazie al metodo collaudato dello spostamento in fogna se sull’asfalto, o dell’interramento se sull’erba. Addirittura, in più di un’occasione, armato di sacchetto in spalla aveva raccolto rifiuti in giro, differenziandoli e conferendoli negli appositi cassonetti. Il suo comportamento virtuoso, dettato dalla propria sensibilità, non era apprezzato o gratificato dai residenti ma, per assurdo, ostacolato o preteso, secondo la variabilità dell’umore, per via della condizione di profugo ospitato che non avrebbe dovuto contribuire ulteriormente al degrado ambientale circostante, riservato esclusivamente agli autoctoni, non adusi, comunque, alla pratica di specifiche usanze civilizzate.

Lascia un commento