Blog a cura di Francesco Strazza

7. Angiolina Angiolì

Ormai l’avvocato De Benedictis girava per casa con la fascia tricolore di sindaco in pectore. Era fatta: chi avrebbe mai potuto sconfiggerlo o scalzarlo? Qualsiasi competitore avessero messo in campo le altre forze politiche o le finte liste civiche, nessuno avrebbe potuto reggere il confronto, si profilava una larga vittoria con percentuale altissima. Dopo aver deposto il gonfalone comunale in un angolo della sua fervida mente, si era allungato nella penombra del lussuoso salotto sulla sua poltrona di pelle. Riverberi di luce provenienti dall’esterno lo inquadravano al centro della scena. Vestito, come suo solito, di tutto punto con giacca e cravatta, completi di alta sartoria confezionati su misura sulla sua persona alta e slanciata, capelli fluenti bianchissimi, barba corta curata impeccabilmente nel suo salone di fiducia, il vezzo degli occhialini d’oro appesi al collo, gambe accavallate dentro pantaloni dalla piega perfetta, il sigaro spento tra le dita, con lo sguardo oltre i vetri della terrazza all’ultimo piano dell’esclusiva dimora abbracciava l’intero panorama della città  illuminata da fioche luci artificiali. E nella conca ove era adagiata Nguaiata, con la mente scavalcava la dorsale appenninica che la circondava, proiettandosi con un balzo veloce sull’autostrada attraverso i viadotti e le gallerie fino alla pianura, senza limiti di velocità, lambendo la litoranea di corsa fino alla Capitale con il suo raccordo, le vie consolari, i viali, il centro, gli edifici storici, Montecitorio, Palazzo Chigi, Palazzo Madama, il Quirinale! Il rimbombo di un tuono aveva squarciato il silenzio sonnolento calato all’improvviso nella stanza. L’avvocato De Benedictis aveva riaperto di scatto gli occhi. Un filo di saliva gli pendeva tra le labbra semiaperte. Il bagliore di un fulmine, seguito da un nuovo boato, aveva illuminato l’intero appartamento. Le forze del cielo avevano scatenato un intenso rovescio d’acqua sulla terra. Era rimasto fermo al suo posto, assente, risucchiato dalla potenza dello spettacolo davanti ai suoi occhi arrossati. Una lacrima gli era scesa sulla guancia fino alle labbra, con la lingua l’aveva risucchiata in bocca. Ce l’avrebbe fatta ad arrivare lassù, nel firmamento che stava brindando ai suoi futuri, inevitabili successi.

 Tornato al bar, sorseggiando un crodino accompagnato da arachidi, olive e patatine fritte, Mimmo Perullo rimuginava sugli anni trascorsi nell’edificio comunale. Erano passate diverse amministrazioni, decine e decine di assessori e consiglieri, svariati dirigenti ma, fra i suoi inamovibili colleghi di ogni grado e mansione, di sicuro lui era stato ed era il meno avvantaggiato da quando gli si erano spalancate d’incanto le porte dell’assunzione. Aveva goduto degli inevitabili scatti di anzianità ma non di livello rimasto sempre lo stesso, così come lo stipendio. Era vero che i suoi santi in paradiso da tempo sopravvivevano nel dimenticatoio, seppure fossero stati ancora vivi, ma i superiori non si erano mai accorti della sua trentennale presenza di là dal vetro come un’immarcescibile reliquia? Stava andando in ebollizione come una pentola a pressione ripensando ai tentativi di avanzamento lavorativo compiuti negli anni addietro. Aveva provato con un concorso interno a diventare impiegato all’anagrafe poiché ai tributi o all’ufficio elettorale non aveva né i titoli né la preparazione per competere con gli altri candidati. Aveva provato a superare lo scoglio del possesso della sola licenza media inferiore iscrivendosi a un istituto privato per conseguire il diploma di ragioneria, tentando di frequentare i corsi serali di due ore, tre volte a settimana con sacrifici indicibili, soprattutto di comprendonio e acquisizione delle astruse materie insegnate. Aveva dapprima scelto la soluzione cinque anni in uno ma, considerando le difficoltà legate ai giorni di frequenza – tre – e alle ore ciascuno – due – di lezione e alla concentrazione massiva delle materie, aveva successivamente optato per il pacchetto cinque anni in due, con due sere di due ore l’una. Ma tutti quei numeri lo avevano
confuso, spostandogli l’attenzione sulle tattiche d’impostazione calcistica, varianti dei classici quattro-quattro-due o quattro-tre-tre. Dopo un solo mese di relativo impegno era crollato sui libri e quaderni, materiali a lui da sempre sconosciuti. Pertanto si era deciso a un oneroso investimento, acquistando online il titolo di licenza media superiore, scegliendo il meno costoso di tecnico dei servizi di ristorazione, legalmente riconosciuto. Ma al concorso interno aveva fallito la prova sbagliando gli scritti – quiz semplici su materie giuridiche elementari e domande sciocche a risposta ovvia multipla di cultura generalissima – e facendo scena muta agli orali nonostante la superficiale preparazione su bignamini illustrati. Si era sentito tradito dall’Amministrazione che aveva volutamente ignorato i suoi anni di occupazione fisica della guardiola a vantaggio di colleghi meno meritevoli di lui, vincitori del concorso truffaldino (li aveva visti copiare, lui non c’era riuscito). Aveva buttato i soldi dalla finestra e non c’era stato neppure verso che accogliessero la sua istanza di trasferire il diploma, per lui inutilizzabile, a suo figlio Salvatore, alle prese con inenarrabili difficoltà scolastiche. Non si era arreso perché, a ogni tornata elettorale, continuavano a crescere di numero in portineria, tanto che in capitolato avevano dovuto sempre aggiungere una spesa straordinaria nell’acquisto di sedie, e la stanza diventava volta per volta più invivibile della cella sovraffollata di un qualsiasi carcere della penisola. Aveva ripiegato, allora, sulla posizione contrattuale meno remunerativa dello sportellista semplice candidandosi ad addetto timbratore di protocolli, compito che non necessitava di concorso a esami ma semplicemente di una domanda in carta bollata all’Ufficio Acquisizione domande in carta bollata. Dopodiché si era attivato nella ricerca di una robusta raccomandazione bypassando gli stadi intermedi, arrivando a bussare direttamente alla porta del Sindaco in persona il quale era il cugino di secondo grado di un parente alla lontana di un suo amico che non vedeva da tempo, forse deceduto. E con questa credenziale asfittica ma reale e gratuita, si era visto rassicurare dall’allora primo cittadino nel corso del breve ma esaustivo colloquio intercorso tra i due davanti alla macchinetta del caffè in corridoio, lontano da sguardi indiscreti. Quando successivamente il posto era stato assegnato a un altro e il sindaco era stato sfiduciato dal consiglio comunale, Mimmo Perullo aveva vissuto il rammarico dell’occasione sfumata, odiando le manovre subdole e i sotterfugi, i maneggi nell’ombra che avrebbero sempre inficiato la trasparenza e la condotta dell’Istituzione, in primo luogo, e della città di Nguaiata, secondariamente.

 Nello stallo del traffico dopo l’acquazzone, tornata la calma dopo le sfuriate nevrotiche degli automobilisti imbottigliati, mentre ognuno degli autisti si predisponeva a impegnare il tempo – chi addentando un panino, chi sorseggiando una bevanda calda o chi, fortunatamente col partner, facendo l’amore -, Lucia Speranza, abbandonata per sempre l’idea di parlare con Salvatore o leggere un suo sms, si era collegata con lo smartphone a Facebook digitando la password duetestimonieunaltare, tutto attaccato. La foto del profilo era di cinque anni prima, insieme a Salvatore eccezionalmente fotogenico. L’aveva scelta proprio perché lui non aveva la solita espressione timida e accigliata ma da semi-bel tenebroso, simil-bello e dannato, con gli occhi vivi e il sorriso acceso come gli capitava dopo aver mangiato con gusto, barbetta incolta pari a un quasi vero uomo, calvizie incipiente da mezzo macho. C’erano i loro visi in primo piano, lei non ancora trentenne, i capelli di un nero corvino splendente, la bocca carnosa naturale, un trucco leggero sulle guance, un filo di matita sugli occhi, un tocco di rossetto alle labbra. Stavano bene insieme, una bella coppia, a detta di tutti, davvero una bella foto. Sul diario pubblico del social network aveva cominciato a scrivere l’ennesima puntata del viaggio di nozze che stava pianificando, della crociera nel Mediterraneo che avrebbe toccato rinomate località turistico balneari, dalla Grecia passando per il nord Africa fino alle coste franco-iberiche per approdare dopo venti giorni di navigazione nel golfo di Napoli. Tempestato di emoticon – due all’inizio e alla fine di ogni frase – il testo di quattro righe scarne, aveva controllato con scrupolo che fosse scritto in italiano corretto (non avrebbe potuto sbagliare la forma, proprio lei che avrebbe dovuto fare l’insegnante dopo il diploma triennale magistrale, se avesse completato il biennio successivo). Aveva corredato l’elaborato di fotografie alla rinfusa di Barcellona, Atene, Casablanca, Tripoli (non leggeva i giornali), Madrid (non conosceva la geografia). Aveva inviato il post e attendeva gli I like che non arrivavano. Allora era passata al secondo profilo, quello falso con un nome fittizio – Angiolina Angiolì – con il disegno a colori di una maggiorata in déshabillé (il suo cruccio maggiore era la seconda di seno e non c’era push up che reggesse la frustrazione). Si era guardata attorno con circospezione. Erano sempre fermi in fila con fari e motori spenti, qualcuno era rincasato a piedi lasciando l’auto sul posto, i marciapiedi deserti, non c’era anima viva in giro. Ritornata con l’attenzione allo smartphone, aveva mandato Angiolina a curiosare nei profili delle smorfiose che frequentavano il negozio d’intimo, subissandole di insulti, e scritto qualche parolina oscena ai bei maschietti che esibivano muscolature indecenti, soprattutto nel basso ventre, accompagnata da lingue sguainate.

 Una volta che gli psicofarmaci avevano raggiunto l’effetto desiderato dell’armatura corazzata per la sua anima scivolosa, Carmine Abbascio poteva finalmente liberare lo sguardo oltre il suo corpo e rientrare nel paesaggio urbano. La pozione intera sarebbe durata meno di un
paio d’ore, aveva consumato d’un colpo l’intera riserva d’ossigeno, quindi sarebbe dovuto riemergere in tempo prima di soffocare. Aveva da poco rimosso la brutta esperienza capitatagli qualche anno prima, agli inizi della sua sfortunata esperienza universitaria. Allora era appena uscito dalla biblioteca, dopo un’infruttuosa mattina di studio, allorché si era ritrovato nel mezzo di un corteo di poche centinaia di persone, manifestazioni ricorrenti a Nguaiata di disparata specie. Cortei studenteschi sull’onda degli echi nazionali – nell’ultimo periodo sul tema dell’ambiente, contro il surriscaldamento del pianeta che anche a queste latitudini aveva i suoi dimostranti, sebbene apparentemente freddi; proteste di decine e decine di lavoratori in piazza per le ripetute chiusure o le mancate aperture di siti industriali, filiali di multinazionali che delocalizzavano in un altrove incredibilmente più depresso ma sgravato di tassazione; processioni religiose in ricorrenza di santi patroni che non finivano mai; sfilate ormai consuete di tifosi della squadra di calcio alle prese con l’ennesimo fallimento societario. Alle volte i dimostranti si mescolavano: i tifosi pregavano il patrono di turno di intercedere presso un santo protettore disposto a investire nel calcio, tra le proteste e le imprecazioni dei gruppi di fedeli espropriati dei simboli sacri, e mentre i cassintegrati mobilitati s’intromettevano nella mischia senza sapere a quale santo votarsi, i gruppi degli studenti intervenivano per raffreddare, almeno, gli animi. E in uno di questi bailamme si era appunto ritrovato coinvolto Carmine quando, attraversando la strada a testa china, trattenuto il fiato e turatosi le orecchie, aveva cercato di fendere di corsa la calca impazzita. Era stato catapultato, dall’ondeggiamento della marea, sulla statua del santo in processione, aggrappato all’aureola sacra per non precipitare, con la sciarpa colorata della squadra di calcio stretta attorno al collo e la stoffa di un vessillo sindacale sulla faccia che in un attimo gli avevano tolto l’esigua riserva d’ossigeno nei polmoni. Era caduto a terra dal catafalco trascinando sull’asfalto la scultura venerata che si era frantumata tra gli astanti inorriditi e segnati con la croce mentre Carmine si dimenava a terra bestemmiando e maledicendo santi, poeti e navigatori, in preda a una crisi di nervi irrefrenabile. Erano apparsi per miracolo i vigili urbani che avevano immobilizzato lo sconsiderato in escandescenze sacrileghe, scaraventandolo di peso in un’autoambulanza immediatamente accorsa (a dispetto dei tempi usuali d’intervento occorsi per ordinarie urgenze), sottraendolo, di fatto, all’ira della folla che, riavutasi dalla sorpresa, aveva tentato di linciarlo. Il povero Carmine era stato quindi destinato a un trattamento sanitario obbligatorio nella locale struttura di salute mentale, decadente e satura.

 Pietro Taùto era uscito dal retro del bar contando i soldi della vincita alle carte – poche decine di euro – frutto dell’abituale arte del barare, dell’indole incapace per costituzione di onestà e verità. Inconsapevole del proprio comportamento che lo faceva ritenere un dritto, era un profondo conoscitore della vita di bassa lega, insofferente alle regole comuni, praticante della truffa di piccolo cabotaggio che non lo portasse a delinquere apertamente, impaurito dalla pena da pagare se scoperto, portato per natura al sotterfugio. Si era fermato al banco e aveva ordinato una birra media guardandosi bene dall’offrirne al suo socio occasionale, non per tirchieria, anzi a modo suo era pure generoso ma per cafoneria d’ordinanza. Svuotava le ciotole sul bancone di noccioline e patatine cacciandosele a grosse manate in bocca, ripulendosi il sale dalle dita sui pantaloni. Con robusti sorsi aveva trangugiato il boccale la cui schiuma si era attaccata ai baffi rendendolo simile a un consunto tricheco di pezza, buffo e repellente. Ruttando sottovoce e accesa una sigaretta, aveva ordinato un cognacchino, aspirando con voluttà il fumo tra i presenti non fumatori che nemmeno protestavano per il divieto vigente, rassegnati alle regole disattese. Si era allontanato senza pagare chiedendo al barista di aggiungere al conto, uno dei tanti sospesi in città e nei dintorni. Mai estinti del tutto o, se pagati a rate e in acconti, con abbondante ritardo, più spesso condonati per assenza prolungata e finiti nel dimenticatoio. Piccole cifre che non valevano la pena di denunce o gravi litigi, solo ad aggiungere fama di discredito a un curriculum inguardabile. Scolato d’un fiato il liquore, stava vibrando il cellulare nel taschino della camicia
sbottonata fino all’ombelico. Aveva caldo e cominciava a essere brillo, ubriaco non lo era mai sebbene cominciasse a bere dalla mattina. Reggeva benissimo l’alcol grazie al lungo allenamento e perché non beveva mai acqua che considerava inutile sotto tutti i punti di vista, igienico compreso. Aveva schiacciato il pulsante verde sulla tastiera scolorita del vecchio telefonino, semplice nell’uso: verde per chiamare, rosso per chiudere come il semaforo semmai lo rispettasse. Era la moglie che aveva attaccato con voce alterata le solite domande del giorno e della notte: dove sei, quando torni, cosa fai, con chi sei e così via. Alle quali erano seguite le solite risposte a monosillabi e grugniti evasivi. Quindi, dall’altro capo del filo come a tavola quando era presente, erano riprese le successive minacce: me ne vado anzi te ne vai tu, sbarro la porta, ti lascio in mezzo alla strada e via dicendo. Una volta attaccato dopo il brontolio impastato, Pietro Taùto era andato al cesso a pisciare fuori dalla tazza e senza tirare lo sciacquone né lavarsi le mani, aveva ordinato un altro cicchetto, provvedendo a rivuotare ad ampie manate le ciotoline di arachidi e patatine appena riempite, ripulendosi le dita sudate impiastrate di sale sui bordi delle stesse. Gli era venuta fame, pertanto si era avviato verso l’auto benché non ricordasse dove l’avesse parcheggiata. Non per ubriachezza, semplicemente poteva essere dappertutto fuorché nelle ordinarie strisce o nei canonici luoghi di sosta, doppia fila compresa.

 Piglio era, dunque, finito in mezzo al mare. Sui tronchi di legno in equilibrio tra le onde, con gli occhi sbarrati sull’immensa massa d’acqua mai vista prima insieme ai suoi compagni di sventura, veniva sballottato dal destino in agguato laggiù sul fondo. Disconoscendo la morte si specchiava in una paura colorata di blu sotto il sole o scura come il cielo rannuvolato, affamata di sete e sonno. Erano passate delle imbarcazioni ma nessuno li vedeva, trasparenti come l’acqua marina. Anche dei velivoli a bassa quota ma loro restavano invisibili come l’aria. Qualcuno dei suoi compagni non aveva retto a lungo lasciandosi andare; e sparito tra i flutti senza riemergere, l’istinto naturale della vita si scoloriva in un nero più tenebroso della notte infinita. Ma la vitalità di Piglio era più forte della speranza e come per miracolo era rimasto fermo sul suo galleggiante alla deriva. Prima che gli fossero venute meno le forze del suo giovane corpo ormai esausto era stato raccolto da un peschereccio d’altura che lo aveva issato a
bordo. Non c’erano ulteriori sopravvissuti in giro, forse ancora altre croci prima o poi a galla nell’umana indifferenza. Era ripresa la navigazione verso un porto sicuro. Accarezzato e rifocillato, era pronto a rialzarsi dopo la brutta avventura che continuava a perseguitarlo dalla nascita.

 


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