Blog a cura di Francesco Strazza

6. Salotto buono

L’avvocato Alfonso De Benedictis si era diplomato col massimo dei voti al liceo classico della sua città, aveva conseguito con lode la laurea in giurisprudenza nell’ateneo del vicino capoluogo, viaggiando in autobus per seguire i corsi poiché non voleva pesare sul bilancio della sua famiglia fittando una stanza come tanti suoi amici universitari, benché i suoi genitori avrebbero fatto più del possibile per agevolarlo nel suo percorso di formazione. Non aveva grilli per la testa: studio, parrocchia e segreteria politica. Nessun vizio, qualche svago occasionale, determinato fino al midollo a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi. A vent’anni si era fidanzato con la sua futura moglie, ginnasiale di buona famiglia – padre dirigente regionale di partito, madre professoressa di matematica nella scuola media. Si erano conosciuti in parrocchia nel corso di un’iniziativa elettorale. Dopo la laurea aveva evitato di sprecare un anno in caserma grazie ai buoni uffici del vescovo con i vertici militari del distretto di appartenenza che lo aveva assegnato a una sorta di servizio civile negli uffici dell’alto prelato con la benedizione del partito. E tra una parrocchia e una segreteria aveva conosciuto la gente giusta per l’abbrivio della sua carriera. Contemporaneamente agli esercizi spirituali nella curia, aveva svolto il tirocinio da praticante nel più affermato studio legale della città dove, dopo il conseguimento del titolo di avvocato, era divenuto uno dei soci e di là a pochi anni il titolare dello studio che tuttora portava il suo nome. Ogni porta gli era stata aperta e in capo a una decina d’anni aveva costruito e rafforzato la sua parte di potere nell’economia locale di cui era un autorevole esponente. Quando il Partito era stato travolto dal ciclone era ormai in grado di camminare sulle sue gambe e non aveva faticato a stringere nuove amicizie con gli emergenti passati dalle seconde e terze file in primo piano, scambiandosi di posto con gli ex protagonisti finiti nell’ombra in attesa della
resurrezione prevista, in virtù dell’inesistente memoria locale e nazionale. La moglie dell’avvocato De Benedictis, una stimata professoressa liceale di matematica, gli aveva dato due figli – un maschio e una femmina – e si era assunta l’onere della crescita ed educazione degli stessi esonerandolo dai quotidiani coinvolgimenti, a eccezione dell’esercizio dell’autorità paterna, permettendogli di dedicarsi anima e corpo alla propria carriera professionale. E il premio ai sacrifici di un’intera vita consacrata al dovere, sarebbe stato la candidatura a primo cittadino.

 Mimmo Perullo stava tracciando il solito solco tra la guardiola incustodita e il bar affollato di dipendenti comunali, unici utenti autorizzati all’accesso. Aveva consumato tre caffè, due cornetti salati e un toast. Era tornato in forma fisicamente ma il fastidio che provava verso l’universo mondo gli rovinava l’umore. Eppure avrebbe dovuto farsene una ragione, questo era il suo carattere dalla notte dei tempi ma l’età prossima alla pensione lo aveva inasprito più di un vino andato a male. Non reggeva più il suo lavoro, come non aveva sopportato la scuola dell’obbligo, la tortura di restare fermo ore in attesa della campanella e dell’intervallo nonché del ritorno a casa. Questo supplizio che si ripeteva giorno per giorno gli torceva le budella rovinandogli, a tratti, l’appetito, la più forte ragione di vita. Tutto era diventato una seccatura: la timbratura del cartellino (obbligatoria), l’accesso alla guardiola (facoltativo), la lettura ripetuta dei giornali (tassativa), le richieste degli utenti (ignorate), le circolari di servizio (cestinate), lo
squillo del telefono (inevaso), il percorso fino al bar (stancante), le chiacchiere dei colleghi (noiose), i tragitti al bagno (occupato). Come aveva fatto a resistere trent’anni in questo inferno? Solo per lo stipendio a fine mese? Certo, ribatteva. Il suo luogo ideale era la sua casa, precisamente nel soggiorno sul divano a piedi scalzi davanti alla tv a guardare calcio, ruminando patatine fritte e popcorn oppure in cucina seduto a capotavola davanti a un piatto abbondante di pasta al sugo, carne alla griglia con insalata di pomodori, vino, dolce, caffè e ammazzacaffè. A seguire, rutto d’ordinanza. Oppure in camera sul letto a sonnecchiare in attesa della colazione, del pranzo, dello spuntino o della cena. La moglie a sua completa disposizione, pronta ad accorrere a ogni suo richiamo (di solito un fischio), indaffarata in cucina da mattina a sera. E meno male che a breve sarebbe andato via il figlio, suo diretto concorrente, prossimo alle nozze. Non avrebbe più avuto contendenti nell’utilizzo della donna di casa. Intanto il tempo in ufficio si era fermato a pagina dodici del giornale sportivo, insabbiato sul calciomercato.

 Lucia Speranza non era propriamente un esempio di fedeltà prematrimoniale. Nei suoi dodici anni di fidanzamento con Salvatore aveva ceduto più di una volta alla tentazione della carne. Era nel pieno della giovinezza con le voglie incontenibili di sesso irrefrenabile e il fidanzato era decisamente una frana, uno specialista senza pari della sveltina seguita subito dopo da sonno ovunque si trovassero, a letto o in macchina. Per decidersi alla seconda scopata aveva bisogno della sveglia. La terza, sempre incompleta, era sparita da anni dalla loro vita sessuale. Era stato il suo primo ragazzo, se ne era ciecamente innamorata a vent’anni, ancora vergine, perché avrebbe dovuto farlo per amore, non avrebbe mica potuto aspettare il matrimonio come avrebbe voluto la sua nonna prediletta. Pertanto, nell’attesa di Cupido apparso nelle future sembianze di Salvatore, andava avanti a spompinare i suoi temporanei fidanzati lasciandosi, a sua volta, toccare con le dita. Quando li tradiva, masturbava i suoi occasionali amanti per non sentirsi in colpa per le infedeltà. Così adesso spompinava gli altri per lenire il tradimento nei confronti del suo futuro sposo. Ma questo cliente del negozio da cui era inevitabilmente attratta, non si sarebbe certo accontentato di un pompino. Era un bel problema perché il suo abito bianco da sposa se lo sarebbe dovuto meritare dopo tanta attesa, non poteva mica oltraggiarlo di fronte al
prete innanzi all’altare. Presa da sconforto aveva pigiato ripetutamente il clacson della sua utilitaria, ancora in fila sul corso cittadino bloccato in un nodo gordiano. Aveva dato l’avvio all’ennesimo concerto in strada. Nel frattempo aveva smesso di piovere.

 Carmine Abbascio guardava nervosamente l’orologio al polso. Il tempo da osservatore solitario della sua città stava per scadere. Quanto prima i suoi concittadini sarebbero calati in strada a sciamare per le vie del centro e la sua pace sarebbe presto andata a farsi benedire. Il pilota automatico del suo sistema nervoso si stava lentamente innestando, pronto a dirigersi verso le zone periferiche delle sue ansie e di Nguaiata. Non avrebbe fatto in tempo a vedere i cambiamenti in atto nel salotto buono del centro, teatro delle vasche degli nguaiati vestiti a festa, sito normalmente rivoltato in concomitanza con le elezioni amministrative, con messa in posa di alberelli in cerca d’ombra, panchine artistiche senza seduta o schienale, lampioni abatjour o porticati posticci. Uno spettacolo ricorrente che non cessava di stuzzicare anche la curiosità dei sofferenti psichiatrici. Il corso principale sarebbe stato fonte di collassi emotivi incontrollabili, facce con ghigni a settantadue denti, voci sguaiate, energiche pacche sulle spalle, scalpitante andirivieni da un punto all’altro della gabbia pedonale. Nessuno lo avrebbe cercato ma la propria plastica sofferenza avrebbe attirato gli sguardi malevoli delle persone annoiate che, in branco, sarebbero andate a caccia di prede indifese. Era stanco di essere il piccolo trofeo delle loro grandi frustrazioni, aveva solo voglia di essere lasciato in pace, venire ignorato come se non esistesse, sparire, non essere mai venuto al mondo, invisibile alla sua stessa vita che avanzava pesantemente in quella landa provinciale senza redenzione. Si sarebbe diretto verso la stazione ferroviaria abbandonata o nella zona industriale dismessa, nei quartieri dormitorio senza chiese né autobus, cinema o biblioteche, negozi e giardinetti, con panchine arrugginite lungo strade sconnesse. Ovunque, lontano dalla pena accovacciata nei suoi intestini attorcigliati. Avrebbe desiderato tornare a casa, rinchiudersi nella sua stanza semibuia, distendersi sul letto e alla luce di una calda lampadina rifugiarsi nel libro che stava leggendo, un interminabile romanzo americano pieno di troppe parole e pagine distanti dalla temuta fine laggiù in fondo a centinaia di miglia ancora. Aveva spezzato una pastiglia a metà e mezza se l’era cacciata in bocca ingoiandola con la saliva in eccesso, aspettando la secchezza delle fauci, la pelle tirata sugli zigomi fino agli occhi spalancati e asciutti, l’espressione vitrea e distaccata, il cuore pompato con lentezza, le mani sudaticce, i muscoli distesi, il respiro silenziato. Ma assalito dall’ansia, ne aveva ingoiato l’altra metà, eternamente rincorsa.

 Pietro Taùto era seduto al tavolo nel retro del suo bar abituale, impegnato in una partita a carte con tre degni compari. Erano avvolti in una densa nuvolaglia di fumo, quasi sospesi in cielo nel loro mondo parallelo. A intervalli regolari il barista ritirava le bottiglie vuote di birra e ne riportava di piene sempre più calde, dato che i personaggi in questione erano capaci nel giro di poche ore di riempire la campana del vetro in strada. Le cicche delle sigarette si accumulavano sul pavimento mentre le carte venivano scagliate con forza sul tavolo ingombro, tra bestemmie e urlacci. A ogni giro di carte i soldi passavano da una mano all’altra e messi in tasca senza lasciarli in vista, data l’ora non ancora consacrata all’azzardo tollerato. Attorno ai giocatori un gruppetto di spettatori assisteva alla partita, regolarmente seduti alle loro spalle in veste di abbonati a tale ruolo, gente che non avrebbe mai rischiato i propri soldi con quei bari di professione. Sulla porta della stanza si era affacciato un ragazzino di quindici anni, il secondo figlio di Pietro Taùto, Mario, mandato in avanscoperta alla ricerca del padre abitualmente scomparso o, meglio, del marito svicolato considerando la mandante della ricognizione. Con aria infastidita, nell’indifferenza generale, aveva cercato i lineamenti del padre nel cumulonembo essendo i protagonisti di eguali proporzioni fisiche, riprodotti con lo stampino. Appena si era dissolto un po’ di fumo, il padre lo aveva visto facendogli cenno di avvicinarsi. Il ragazzo aveva obbedito con aria abulica e avvicinatosi alla sedia, Pietro Taùto gli aveva offerto una sigaretta allungandogli pure una banconota stropicciata nonché la sua mezza bottiglia di birra calda e schiumosa. Aveva afferrato ogni cosa mentre il padre gli faceva un occhiolino di intesa con aria compiaciuta e vagamente orgogliosa del comportamento maturo del figlio. Portata a termine la missione, quest’ultimo era uscito dalla stanza e dal bar riunendosi agli amici in attesa, impegnati a trafficare coi loro smartphone di ultima generazione, tra una bestemmia e un urlaccio.

 Naturalmente nel caseggiato c’era qualche condomino che non vedeva di buon occhio la sistemazione di Piglio all’ingresso a causa del decoro del palazzo, innanzitutto; in secondo luogo, per paura delle pulci e zecche che l’ospite indesiderato aveva certamente addosso e per le
malattie che avrebbe potuto trasmettere, non essendo regolarmente vaccinato e curato. Pertanto cercavano in ogni occasione di diffondere notizie false e tendenziose sul comportamento incivile del reietto che si ostinava, ad esempio, a fare i propri bisogni in pubblico davanti a donne e bambini, a mangiare cibo scadente o scaduto con creanza inurbana e bestiale, oltre a una condotta inappropriata, troppo confidenziale nei confronti dei residenti e sregolata nel sonno e nei pasti rispetto al normale svolgimento della giornata. Insomma un modello poco edificante per gli abitanti che nulla avevano da guadagnare ma, al contrario, a rimetterci di tasca propria nell’ospitare a casa loro un siffatto soggetto. Se ne guardavano bene dall’affrontare questi argomenti direttamente con Piglio data la mole, nonostante non avesse mai dato in escandescenze ma non ci si poteva fidare delle sue reazioni in quanto proveniente da un mondo
estraneo e sconosciuto. Piglio sentiva la diffidenza di queste persone ma ugualmente scodinzolava, non per sottomissione, ma perché per istinto non perdeva la propria natura festosa e accogliente, memore delle sofferenze patite e del dolore impresso nella pelle.

 


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