Blog a cura di Francesco Strazza

5. Clandestini

L’avvocato De Benedictis non era affatto preoccupato per le penose condizioni in cui versava la città di Nguaiata che, a dire il vero, tempi migliori ne aveva visto col lanternino in passato, sin
dalla sua fondazione nella Magna Grecia. Ma rispetto alle successive colonizzazioni, invasioni, devastazioni, pestilenze e cataclismi naturali, la situazione attuale era terribilmente
compromessa, senza speranza alcuna di rinascita come era stato, ad esempio, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale quando gran parte della città era stata rasa al suolo. Oppure dopo gli sconquassi dei sommovimenti tellurici che più di una volta avevano colpito l’area urbana. Stavolta, però, la catastrofe era partita direttamente dal Palazzo del Comune che era stato commissariato a causa di un grave e profondo dissesto finanziario che aveva prosciugato gli esigui – per i cittadini – fondi municipali, nonostante la prassi consolidata di esigere tasse e balzelli, imposte e tributi senza restituire servizi di alcun genere alla collettività vessata. Anzi quest’ultima, a forza di prestare il fianco complice alle oscure manovre del Palazzo, aveva contribuito alla voragine economica che aveva inghiottito la città lasciandola sprofondare in un abisso senza fine, grazie alla pratica inveterata di un rinnovato familismo morale: le briciole elargite a cento persone volta per volta ne affossavano diecimila, e così via fino a ridurre l’intero territorio a un ammasso di tombe senza nome, un’unica croce sulla fossa comune. La città era mal governata da più di settant’anni dallo stesso colore che negli ultimi trent’anni, dopo la scomparsa del Partito a causa di condanne a livello nazionale da parte della magistratura, aveva cambiato nomi e sigle, persino area d’appartenenza senza abbandonare la Croce cristiana, defilata in alto o in basso, non più al centro, mai però accantonata davvero. Più della magistratura contavano gli elettori, consapevoli o meno del simbolo barrato. Il partito trasversale che aveva avanzato la candidatura dell’avvocato De Benedictis, alle precedenti elezioni aveva lasciato campo libero al Movimento Peones (una neonata formazione populista composta da piccoli uomini e da sprovveduti politicanti) che aveva raggiunto, dopo il ballottaggio, la poltrona della massima carica cittadina tra il tripudio di una fetta della popolazione votante di Nguaiata – che aveva sentito il vento del cambiamento – e degli stessi sconfitti che s’erano adoperati, in pochi mesi di opposizione, a collocare sulle deboli spalle dell’ingenuo neosindaco il peso del dissesto finanziario di oltre mezzo secolo di malgoverno. Era sopraggiunto un commissario prefettizio che, nel disbrigo di prassi dell’ordinaria amministrazione, aveva di lì a breve indetto nuove elezioni fornendo un preciso Quadro Pressappoco delle cifre disastrate del bilancio, preparando così la popolazione locale alle lacrime e sangue necessarie al rientro economico, previsto nell’arco dei successivi quarant’anni. Quindi adesso sarebbe toccato amministrare ai soliti noti e ignoti rappresentati dalla figura eminente dell’avvocato Alfonso De Benedictis.

 Mimmo Perullo si era finalmente deciso a tornare nella sua guardiola. C’era il giornale da leggere. Camminava indolente lungo il corridoio lanciando sguardi distratti e minacciosi alle persone in fila disordinata per accedere agli uffici del pianterreno, salutando con rapidi cenni della testa gli impiegati diretti al bar con aria indaffarata, più che per reali impegni quotidiani, con intenti dissuasivi nei confronti di eventuali seccatori che non mancavano mai di importunarli nella meritata pausa tra un caffè e l’altro. Mimmo Perullo era costantemente incazzato col mondo intero, niente gli andava mai bene, c’era sempre qualcuno che otteneva più di lui in questi tempi di magra, come nel caso di suo figlio Salvatore che finalmente era riuscito a sistemare. Aveva sperato di meglio tentando di farlo assumere in Comune come addetto al verde pubblico o in qualità di netturbino ma la trafila non lo permetteva, almeno a lui. Aveva confidato nell’assunzione all’Asl come usciere o alle Poste con lo stesso incarico, in Prefettura come fattorino o in Provincia come fotocopista. Niente da fare nemmeno all’Agenzia delle Entrate con la qualifica di centralinista. Aveva smosso le (poche) conoscenze a sua disposizione ma non aveva trovato un posto libero in nessun concorso pubblico. Pertanto aveva dovuto rivolgersi al Settore Privato, con i tempi correnti e Nguaiata stagnante. Ma era stato ugualmente un bel colpo messo a segno. Infatti era riuscito a piazzarlo come guardia giurata in un noto istituto regionale per la sicurezza e la vigilanza, senza spendere tanto, riuscendo con una modica
cifra in più a farlo destinare all’Inps come dispensatore manuale di biglietti della macchinetta emettitrice alla solita utenza ignorante e petulante, che affollava senza titoli e diritti gli uffici pubblici. Così, a soli trentaquattro anni, avrebbe potuto camminare con le sue gambe e, con un posto sicuro, pensare al futuro con la sua fidanzata di vecchia data. Ma tutti quei rifiuti nel Pubblico Impiego non era riuscito a digerirli e, a differenza della peperonata, non c’era alka seltzer o bicarbonato che potesse giovargli.

 Mentre la fila avanzava a passo di lumaca illuminata dalla debole luce dei lampioni, per via del piano comunale di contenimento costi, all’improvviso era squillato il cellulare di Lucia Speranza. Il suono della marcia nuziale di Wagner l’aveva fatta trasalire dal suo torpore, con le mani appese al volante. Aveva afferrato lo smartphone senza guardare lo schermo e risposto con tono rabbioso credendo fosse il redivivo Salvatore, eternamente imboscato dai propri doveri e dai suoi voleri. Invece era un cliente che negli ultimi tempi veniva spesso in negozio a comprare
regalini per la sua donna, almeno così affermava. Un buon cliente per quei tempi di magra e senza dubbi un bell’uomo sulla quarantina, curato nell’aspetto e ben vestito, un’auto lussuosa parcheggiata di fronte alla vetrina in seconda fila. Ogni volta che ordinava dei perizoma o autoreggenti, reggiseni o guepière con reggicalze, li sfilava dalla confezione e li palpava con sguardi allusivi piantati negli occhi imbarazzati della commessa. Seguivano richieste di consigli che, più che il parere di un’addetta alle vendite, sembravano voglie sessuali da soddisfare, neanche fossero stati a letto. Lei reggeva la parte professionalmente, forte dell’esperienza accumulata negli anni ma quello sguardo che sembrava spogliarla e rivestirla di quei pochi indumenti la lasciava persa negli occhi del cliente malizioso che conduceva il gioco con spigliatezza. Non era mai stato diretto o volgare, ci sapeva fare con i suoi modi eleganti come i vestiti che indossava. Si sentiva indifesa in presenza dell’attrazione provocata da quello sconosciuto che, alla stessa maniera di fine ribaldo, era riuscito a farsi dare il suo numero personale e lei, sciocca, aveva ceduto senza resistenze. Del resto, che male c’era? Era solo un gioco nella monotonia delle lunghe giornate e quell’uomo apparso nel recente periodo risvegliava, solleticandole, fantasie assopite dietro l’ovvietà generale di Salvatore, specialmente a letto. E ora era lì in linea che le chiedeva ragguagli sui
prossimi arrivi, su eventuali novità e così via, sempre con quel tono da filibustiere di classe che le faceva perdere la testa per qualche momento. Eh, magari Salvatore avesse avuto solo un decimo di quel savoir-faire! A proposito:
dov’era finito che non la richiamava? Che ora era? Dov’era lei stessa?

 Nei giorni feriali uno dei pochi luoghi preferiti da Carmine Abbascio, quando era stanco del suo nascondiglio in casa, era la biblioteca comunale. Ci fossero stati anche i libri sarebbe stato perfetto. Il richiamo esercitato su di lui proveniva dal silenzio che vi regnava, almeno nelle stanze di lettura e studio quando erano chiuse e vuote. Un silenzio a lui congeniale, al suo fragile sistema nervoso che non sopportava un tono appena più alto del linguaggio dei segni. Quando l’edificio era stato sottoposto a ristrutturazione, aveva provato a rifugiarsi nelle chiese senza messe, popolate, però, a tutte le ore da gruppi di beghine recitanti il rosario – una litania dilaniante – o quando venivano officiati i funerali di chicchessia ma non aveva retto alla confusione imperante. Neppure il cimitero era il luogo ove regnasse la pace dei vivi. Tutt’altro: le voci delle donne intente a pulire le tombe dei propri cari anziché a pregare, si levavano alte da un lapide all’altra, anche prossime, neanche fossero stati montanari comunicanti tra un picco e l’altro della catena alpina. Uno jodel cacofonico continuo che si arrestava momentaneamente solo al transito di un corteo funebre, giusto il tempo di segnarsi. Non essendoci, in biblioteca, neppure un servizio di emeroteca, Carmine Abbascio usciva da casa sempre con un libro, cosicché se gli fosse mancata l’aria in giro aveva il suo unico riparo naturale. I giardinetti pubblici in città erano recintati, l’accesso consentito in orari limitati, manco fossero stati preziosi giardini botanici, le panchine dure e scomode, era vietato introdurre all’interno i cani e i cartelli invitavano a non calpestare le aiuole. La ragione era che in passato erano stati compiuti atti di vandalismo gratuito ai danni di panchine, fiori e lampioni, con escrementi non raccolti e bottiglie abbandonate in giro. Quindi la politica comunale era stata, oltre che aprirli in ore prestabilite, renderli inutilizzabili o fruibili con marcata scomodità in modo da tenerne lontana la cittadinanza incivile, evitare i costi di riparazione, contenere quelli di manutenzione e, soprattutto, garantire un lauto stipendio all’indaffarato assessore al verde pubblico. L’unica cosa che continuava a mancare, frequentati o meno, era la quiete come se le voci dei pochi presenti rimbombassero nel vuoto, una riflessione di onde sonore contro gli alberi unite al suono del traffico e del passeggio limitrofi. Carmine avrebbe potuto trovare ricovero nelle campagne attorno a Nguaiata ma era sprovvisto di patente e il servizio pubblico di autobus era scadente con mezzi antidiluviani, corse senza orari precisi e tragitti ridotti che coprivano meno di un terzo della dissestata viabilità urbana e suburbana, praticamente inservibile se non ad assicurare un generoso compenso all’indefesso assessore alla mobilità. Si sentiva un ostaggio della città e prigioniero di se stesso, una condizione difficile da risolvere in tempi brevi. Quindi, prima di frantumarsi in mille pezzi, continuava a seguire con ossessiva ripetitività quelle precauzioni salvavita che lo isolavano dal disastro incombente.

 Pietro Taùto, all’età di ventuno anni subito dopo il servizio militare, era stato assunto da una celebre fabbrica italiana di automobili nello stabilimento di Nguaiata. Mentre era soldato in una grande città settentrionale (dove aveva trascorso l’anno fatidico a imboscarsi, fumare e, in libera uscita, ubriacarsi e andare a puttane), suo padre si era dato da fare per trovargli una sistemazione lavorativa decente. Avendo conseguito a fatica un diploma di perito elettrotecnico, dopo anni di stenti nello studio, su quel titolo aveva puntato il genitore quando si presentava nelle anticamere
delle segreterie politiche dei potenti locali. Aveva trovato udienza nel palazzo della Provincia dove un consigliere addetto ai postulanti aveva raccolto la sua richiesta senza garantire nulla. Il padre aveva impegnato in quell’impresa gran parte dei suoi sudati risparmi. Non avendo santi in paradiso attendeva la grazia dai beati che continuava a sollecitare periodicamente, in attesa dietro porte semichiuse. Gli era stato promesso un concreto interessamento da parte di persone molto in alto che lavoravano per il bene di Nguaiata e degli nguaiati, sempre che questi ultimi fossero stati riconoscenti nella cabina a ogni tornata, dalla condominiale alla nazionale. Suo padre aveva giurato davanti all’effigie di san Gaetano della Divina Provvidenza, patrono dei disoccupati e protettore di coloro in cerca di lavoro. Aveva bagnato con lacrime e sangue la sacra immagine e versato l’ultima rata dell’obolo pagano, dopo il rituale baciamano. Come per miracolo si erano spalancate le porte dello stabilimento automobilistico sito nella zona industriale della città (allora non ancora dismessa), precisamente nel reparto montaggio fari, lampadine e frecce, secondo qualifica scolastica specialistica. E qui era entrato Pietro Taùto, una volta congedato con schifo dall’esercito, rimanendovi la bellezza di undici anni di turni diurni e notturni, costellati da ferie e permessi retribuiti, scioperi vari e una caterva di certificati di malattia, fino al giorno in cui l’azienda, esauriti i fondi e le sovvenzioni statali a fondo perduto “per lo sviluppo e l’incremento dell’occupazione nelle zone disagiate e depresse del Paese”, aveva chiuso i battenti definitivamente dopo mesi di picchetti sindacali. Così era iniziata l’infinita cassa integrazione per gli ottocento operai tra cui Pietro Taùto che, a trentadue anni, era rimasto senza lavoro con moglie e figlio a carico, un altro in arrivo, spossato dai turni massacranti e deciso a far fruttare le sue doti naturali di speculatore.

 Piglio proveniva da una cucciolata numerosa di meticci. I suoi genitori erano randagi originari del meridione peninsulare più profondo, terre disagiate e allontanate più che lontane. Dopo lo svezzamento in strada, tutta la famigliola era stata prelevata dall’accalappiacani durante una di quelle periodiche operazioni di bonifica del territorio dal randagismo dilagante. Era finito in gabbia, separato dal resto della famiglia, in uno di quei canili privati sovvenzionati dalle istituzioni quando ogni struttura pubblica era sovraccarica dei cosiddetti irregolari, privi di tatuaggio e medaglietta di riconoscimento. Aveva vissuto qualche anno in attesa di un’adozione che non era mai arrivata, dato l’alto numero di esemplari reclusi. Reclusione vissuta in spazi angusti con cibo scadente e ogni sorta di privazione, dettata dall’opportunismo dei gestori del centro alla ricerca del massimo profitto con minima spesa sulla pelle degli ospiti. Aveva goduto di sporadici momenti di relativa libertà con guinzaglio e museruola, grazie all’opera di compassionevoli volontari di numero ridotto, intimoriti dal pericolo di malattie trasmissibili dagli animali imprigionati. Eventualità probabile vista la carenza di cure. Finché una notte erano scoppiati disordini incontrollati che avevano causato la morte di qualche ospite segregato e la fuga di tanti altri, tra cui Piglio. Una volta fuori dal centro i rivoltosi si erano dispersi in piccoli branchi nelle campagne, in fuga da un luogo all’altro fino a quando la caccia ai fuggitivi era scemata di attenzione e intensità, placato l’interesse della popolazione con la cattura di qualche esemplare evaso. Tutti gli altri, Piglio compreso, dopo giorni allo sbando, per la paura di essere
riacciuffati e riportati al canile lager, si erano diretti per istinto alle spiagge in cerca di un’ultima via di fuga dall’inferno vissuto. In preda alla disperazione, erano stati costretti a gettarsi in mare sopra miseri tronchi galleggianti.
 

 


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