L’avvocato Alfonso De Benedictis, ormai calato nel ruolo, si sentiva il sindaco illustre di Nguaiata, la sua amena cittadina di provincia famosa in tutto il Paese per la gloriosa squadra calcistica ormai in disarmo nelle categorie inferiori ma, principalmente, per aver dato i natali a tanti deputati nazionali di disparate formazioni politiche contemporanee, tutti germinati dall’immarcescibile Partito democratico cristiano, i cui apostoli sedevano ancora al tavolo dell’ultima cena eternamente in corso. Per la sua campagna elettorale avrebbe presenziato allo stadio, una vetusta cattedrale che necessitava di lavori di ammodernamento o di rifacimento totale. Ecco, avrebbe lanciato al centro del suo programma politico la costruzione del nuovo impianto cittadino, abbinato al rilancio della compagine sportiva per rinverdire i fasti del passato sfociati nel nefasto presente, non solo calcistico. Si sarebbe impegnato personalmente per portare a termine quest’ambizioso progetto da realizzare prima della fine del suo mandato coinvolgendo la migliore imprenditoria nazionale e internazionale (quella locale, dopo decenni di declino assistito, era in uno stato di infinito fallimento). Per tutte le altre questioni sociali e amministrative quali l’occupazione, il piano casa, la viabilità, il trasporto pubblico, la messa in sicurezza degli edifici, la sanità, l’istruzione, il tempo libero e altre simili scempiaggini, avrebbe fatto affidamento sull’inossidabile copia e incolla dei suoi predecessori, eminenti esperti in aria fritta e fuffa bollita. Ora avrebbe dovuto, innanzitutto, informare il Partito della decisione presa contattando le persone che gli avevano proposto l’incarico. Poi iniziare a occuparsi della forma che avrebbe contrassegnato le sue future parole e azioni curando ogni singolo dettaglio in pubblico, come d’altra parte aveva sempre fatto. Ultimo ma non ultimo, sapere in soldoni il prezzo che avrebbe dovuto pagare per l’investitura e conoscere i nomi delle figure occulte cui far costante riferimento. Grazie alla sua professione aveva già avuto modo di frequentare i potentati locali, i mestieranti della politica, i costruttori, gli affiliati e gli adepti ma era curioso di vederli all’opera nella sua nuova veste, in vista del guadagno che ci avrebbe ricavato. Sarebbe stato solerte nell’eseguire gli ordini impartiti dall’alto, che provenissero dal capoluogo regionale o dalla capitale poco importava. Non vedeva l’ora di cominciare il mandato perché questa carica gli stava già stretta.
Mimmo Perullo indugiava al bancone del bar (la sua scrivania, in effetti) mentre leggeva le microscopiche scritte su una bustina di zucchero. Certe giornate erano veramente interminabili. Come le file disordinate di utenti agli sportelli: anagrafe, tributi, annona, servizi sociali. Poveri stupidi che si affannavano inutilmente a sprecare tempo e chiacchiere. In fin dei conti, là fuori in città, cos’altro avevano di meglio da fare? Il Comune era uno dei passatempi preferiti dai cittadini, come le Poste, l’Ufficio di Collocamento, l’Agenzia delle Entrate, l’Asl. Ammortizzatori pubblici contro la noia, un diversivo nella monotona routine quotidiana di una soporifera cittadina di provincia. Una vera seccatura per gli impiegati che avevano solo la colpa di essere dal lato opposto del vetro e il supplizio di continuare, giorno dopo giorno, a sgranare il solito rosario al cospetto delle stesse suppliche. Non avevano ancora capito che non contavano
nulla, i cittadini, che era solo una farsa, una messinscena? Da una parte il pubblico e dall’altra gli attori, gli impiegati che recitavano il copione stilato dagli autori ai piani superiori, dirigenti e assessori a tempo determinato, una combriccola di guitti col capocomico in testa, il sindaco. Peraltro in scadenza, quindi fuori dalla scena. Che cosa cambiava, in fondo? Lo spettacolo sarebbe continuato e quelli che avrebbero scontato la pena in prima linea sarebbero stati sempre e solo loro: gli uscieri, in trincea contro gli sterili assalti del popolo bue. Questo pensava Mimmo Perullo con la bustina in mano prima di decidersi ad aprirla e versarla nel caffè ormai freddo. Aveva guardato nuovamente l’orologio al polso ma si era fermato, segnando ancora l’orario d’ingresso.
Lucia Speranza, bloccata nel traffico all’interno dell’abitacolo della sua utilitaria, aveva continuato a telefonare a destra e a manca. Aveva dapprima chiamato sua madre mettendola al corrente della situazione di stallo in cui si ritrovava suo malgrado, che certamente l’avrebbe fatta rincasare in ritardo e, peggio ancora, le avrebbe impedito di passare dal negozio di bomboniere. Su questo punto era tornata a confrontarsi con lei circa le varie opzioni di scelta su cui era indecisa, se propendere per oggettistica in ceramica o fine chincaglieria d’argento. Poi aveva continuato con Salvatore trovando, però, la segreteria su cui aveva inciso un lungo messaggio, ordinandogli di richiamarla immediatamente non appena lo avesse ascoltato. Aveva continuato con la sua datrice di lavoro preannunciandole il ritardo nella consegna dell’incasso, sebbene il traffico intasato nelle ore di punta mattutine, pomeridiane e serali non fosse un’eccezione nella viabilità ordinaria di Nguaiata. Infine aveva telefonato all’amica di tutta la vita ritornando sull’argomento preparativi del matrimonio con trasporto tale da non accorgersi che la fila di auto si era mossa di un metro e mezzo abbondante, beccandosi un collerico colpo di clacson dall’autista che la tallonava a dieci centimetri dal paraurti, facendole così perdere il controllo della frizione fino quasi a tamponare la vettura davanti, costretta perciò a inchiodare di scatto causando lo spegnimento del motore surriscaldato. Non riusciva a pensare ad altro da quando era nata: il proprio matrimonio. Sembrava venuta al mondo solo per questo: sposarsi. Non era mancata a nessuno di quelli cui era stata invitata fin da bambina e quando ne vedeva uno di sconosciuti non riusciva a non entrare in chiesa per una veloce sbirciatina di un quarto d’ora. Era
letteralmente affascinata dall’abito bianco di qualsivoglia foggia con strascico e velo, sedotta dal lancio del bouquet, ammaliata dalla traversata della navata centrale sottobraccio al genitore, ipnotizzata dal fatidico sì, euforica del servizio fotografico, inebriata dal pranzo nuziale, eccitata dalla prima notte di nozze (sebbene con Salvatore avesse già consumato da tempo). Alle volte era sfiorata dal pensiero che uno sposo valesse l’altro, che la protagonista del film della sua vita fosse soltanto lei, sotto la luce di abbaglianti riflettori. Frattanto aveva dovuto accendere gli anabbaglianti della sua auto. Era calato un buio fitto e la fila avanzava come una lumaca asciutta.
Carmine Abbascio, guardando il cielo, si era accorto che un timido sole era già in alto. Non mancava molto a che la gente si disseminasse come formiche nelle strade. Aveva ancora tempo per continuare la sua passeggiata appartata, bastava che si tenesse alla larga dalle chiese cittadine dove il culto religioso veniva devotamente osservato. Nguaiata, la sua città, era un pugno nell’occhio esteticamente, costellata da interminabili cantieri stradali e da ponteggi che sorgevano come funghi addossati agli edifici, contribuendo a snaturarne via via l’identità originaria oltre che a disegnare una bruttezza abbellita. Era un calcio nel culo, civicamente, dove
ogni senso collettivo della comunità locale scorreva interrato come le fogne tra escrementi e topi, sebbene in certi punti venisse allo scoperto con un tanfo insopportabile e uno squittio raggelante. La gente era talmente abituata al peggio che non era più capace di distinguerlo dal meglio di cui, peraltro, aveva smarrito l’idea e il termine. Comunque, Carmine non avrebbe potuto vivere altrove. La sorte aveva voluto che nascesse qui e si era tanto abituato da non immaginarsi in un altro posto. La decadenza presente in ogni luogo e forma – che sia stato un giardinetto abbandonato, l’androne sporco di un palazzo, il corso principale deturpato, l’asfalto cittadino sbriciolato, un corteo urlante di cassintegrati, la processione patronale salmodiante o una barbosa conferenza stampa delle autorità – ben si sposava con il suo stato d’animo, con la sua essenza contrassegnata da una depressione patologica curata con psicofarmaci e psicoterapie e da una malinconia interiore, una sofferenza di fondo simile a certa poetica ottocentesca che si esaltava nel contrasto stridente con l’ambiente circostante, mescolandosi in un tutt’uno. Con il risultato finale di un’atmosfera tetra e dolente di cui il suo spirito crepuscolare si nutriva come un virus nel suo ospite. Di tutto questo Carmine non ne era pienamente consapevole, preferiva sentirsi nelle vesti di un batterio isolato.
Pietro Taùto era appoggiato con la schiena all’ingresso del suo bar di riferimento, la sua sede amministrativa. In una mano la sigaretta d’ordinanza, nell’altra un bicchiere di birra scura, che si
alternavano in un continuo andirivieni alla bocca sormontata da un paio di baffoni neri. Quando tra le labbra lasciava la cicca (le sue sigarette accese in un attimo divenivano mozziconi), la mano libera oscillava come un pendolo sulla pancia prominente, ancora più pronunciata sulla sua figura bassa e tarchiata. Nel taschino della camicia il cellulare continuava a lampeggiare e
vibrare (odiava le suonerie) ma non aveva voglia di rispondere. Era sicuramente la moglie che non mancava di marcare la propria presenza come una pisciata di cane, dopo le sue prolungate assenze. Era così ovvia quella donna, pensava, da non meritare una risposta immediata. Anzi, da un momento all’altro, non disperava di veder comparire i figli, l’uno o l’altro, mandati alla sua ricerca fruttuosa essendo la sua presenza rintracciabile nei soliti punti cardinali. Le donne rompevano solo le palle quando erano così possessive. Un pover’uomo come lui, si ripeteva mentre il cellulare non smetteva di ronzare, cos’avrebbe dovuto fare a casa con una moglie precocemente in menopausa e costantemente incazzata? Lui doveva guadagnarsi il pane in giro, non era colpa sua se la fabbrica aveva chiuso i battenti quindici anni prima lasciandolo in mezzo alla strada in mobilità prolungata. E per fortuna continuava a ricevere quella miseria di cassa integrazione altrimenti sarebbe stato costretto ad andare a rubare, proprio lui che non ne era assolutamente capace senza lasciarsi beccare. Che cosa poteva farci se non conosceva nessuno – un vescovo, un capitano, un assessore, un bandito – che potesse raccomandarlo per un posto qualsiasi, anche a costo di lavorare veramente? Da tempo aspettava dalla Previdenza Sociale che gli venisse riconosciuta un’invalidità civile del sessanta/settanta percento con relativa indennità ma non c’era verso di trovare gli agganci giusti in alto loco per far sopravanzare la pratica giacente sotto la catasta di domande in attesa. Gli bastava solo che arrivasse in cima, visto che lui era riuscito a giungere solo al cospetto di semplici impiegati: le banconote avrebbero fatto la differenza con gli spiccioli. D’altronde, la sua non era mica una falsa invalidità come se ne trovavano tante in giro a quelle latitudini, ne conosceva di gente che ne era in possesso. Lui soffriva veramente di emicrania cronica con effetti sulla vista e l’udito, pregiudicandogli il normale svolgimento delle attività quotidiane. Aveva accumulato tanti di quei certificati medici sin dai tempi della fabbrica che avrebbe dovuto, già da tempo, essere assunto dall’Inps quale categoria protetta, più di un panda o di una foca monaca. Nel frattempo si accontentava del permesso cartaceo applicato alla sua autovettura che gli permetteva almeno di usufruire degli spazi riservati agli invalidi risparmiando così le esose tariffe dei parcheggi, immotivatamente applicate nel centro città dove c’era il cuore pulsante dei suoi affari. Permesso acquistato a buon prezzo dalle mani di un parente di un titolare defunto. Un affarone, targa contraffatta inclusa.
Piglio sonnecchiava accucciato sui suoi materassini consunti. Ogni tanto apriva gli occhi in direzione di un condomino che allungava un pezzo di pane, cibo avanzato o un osso nella sua ciotola e ringraziava scodinzolando. A Nguaiata non c’erano in giro mendicanti, non se ne vedevano da secoli. Non era, evidentemente, mai stata una città adatta alle elemosine spicciole, perlomeno nella pubblica via. Ogni tanto capitava qualcuno di passaggio che si posizionava nel corso principale ma non durava mai a lungo l’accattonaggio, contrastato dalle forze dell’ordine che provvedevano all’allontanamento del forestiero. Si vedevano talvolta degli zingari sulle porte delle chiese ma nemmeno loro insistevano nella questua. La gente non era abituata a queste figure che erano trattate con indifferenza, senza soddisfarne il bisogno. I randagi, al contrario, avevano sempre fatto parte integrante del panorama urbano per cui erano tollerati e ricompensati. Ora, però, ai tempi correnti un nuovo fenomeno internazionale era perfino arrivato in queste latitudini dimenticate: l’immigrazione cosiddetta clandestina. Lo stesso territorio cittadino, al pari di quello nazionale, per via della crisi economica perdurante aveva visto partire persone nelle stesse condizioni ma con una bella differenza rispetto a questi migranti: il colore della pelle. I nuovi arrivati erano neri, scuri e la diversità col pelo di Piglio era lampante. Suscitavano una curiosità diffidente, come ogni novità immessa in un ambiente statico, quindi venivano ignorati come gli zingari o i barboni e sopportati qualora si fossero adeguati all’immobilismo generale e non avessero parlato straniero, che già certe forme d’italiano erano incomprensibili agli abitanti di Nguaiata.

Lascia un commento