Blog a cura di Francesco Strazza

3. Porziuncola

L’avvocato Alfonso De Benedictis non aveva bisogno dell’approvazione del genero che, manco a dirlo, si era espresso con favore sulla candidatura avanzata dai maggiorenti della città. Lo studio legale ormai camminava sulle sue gambe in automatico, bastava solo leggere la targhetta
sul portone di accesso e sulla vetrata d’ingresso o che la segretaria ripetesse al telefono la formula verbale di presentazione che, d’incanto, si metteva in moto un meccanismo consolidato di alto patrocinio. Non c’era pratica civile, penale, amministrativa che non alloggiasse nei corposi faldoni dello studio associato, incarichi prestigiosi e remunerativi affidati a collaboratori storici o all’ultimo dei praticanti selezionati, oppure svolti da lui in prima persona. La sua reputazione aveva valicato da tempo i confini provinciali planando in ben altri contesti giuridici di sicuro richiamo mediatico. Nel tribunale del capoluogo regionale era da sempre in competizione con gli altri affermati colleghi metropolitani. E nella Cassazione della capitale era di casa, seppure temuto per i frequenti ricorsi. Sulle pagine dei quotidiani locali non c’era dibattimento importante che potesse fare a meno della citazione del suo nome negli articoli, anche in prima pagina con la foto in toga. Quella della candidatura amministrativa, però, era tutt’altra faccenda che non aveva mai preso in considerazione nonostante l’appartenenza politica certificata e rivendicata, in passato. È vero che aveva assistito politici accusati di peculato, falso ideologico, appropriazione indebita, oppure boss malavitosi per associazione mafiosa o per reati contro il patrimonio, ma la loro frequentazione – in qualche caso sconfinata in una sfera più privata, di breve durata, s’intende – non ne aveva fatto un aspirante sodale, pur con tutti i vantaggi di un veloce avanzamento sociale fino a più alti strati che avrebbero stuzzicato il suo orgoglio e il suo appetito. Il suo codice etico era quantificabile in investimenti mirati e fiscalità ammorbidita che garantissero la sopravvivenza della specie. La sua. Se avesse accettato di correre certamente avrebbe avuto successo e quella nuova posizione acquisita, sindaco della sua
cittadina di cinquantamila anime, avrebbe potuto dare il la a una nuova carriera, quella politica in veste di protagonista. Alla fine del mandato, col supporto degli “amici”, avrebbe potuto mirare più in alto: il consiglio regionale oppure – perché no? – direttamente il Parlamento della Repubblica. D’altronde aveva l’età giusta nazionale per intraprendere quest’altra blasonata professione. Avrebbe potuto aggiungere al suo nome un altro titolo, quello di onorevole o di senatore.

 Era nuovamente seduto nella sua guardiola, il giornale aperto sulla cronaca cittadina. Mimmo Perullo aveva fatto la scelta giusta al bar ordinando un’acqua tonica con limone e un cucchiaino di bicarbonato di sodio effervescente. La cattiva digestione notturna era ormai un lontano ricordo, evaporato con i borborigmi eruttati nello spazio circostante. Era di nuovo in forma, riusciva contemporaneamente a leggere i titoli degli articoli e, senza alzar gli occhi, a essere sbrigativo con gli utenti che lo assillavano con domande ridondanti, grazie a brevissime risposte sgarbate, talvolta solamente grugniti di fastidio. Era l’ora della sigaretta e doveva pure usare il gabinetto, e di corsa. Pertanto si era allontanato dalla sua postazione in gran fretta ignorando l’ennesima inutile richiesta di qualche sprovveduto utente che non sapeva neanche leggere gli avvisi affissi sul vetro divisorio contenenti informazioni sommarie o i cartelli indicatori degli uffici di competenza. Aveva ben altre urgenze che occuparsi di questi ignoranti
petulanti come aveva sempre fatto fin dall’inizio del suo impiego trent’anni addietro, nel fulgore dell’epoca democratico cristiana. Il posto, diciamo di lavoro, assegnato con il sistema clientelare del voto feudale di scambio, alla penombra del sole. Si era affidato, come tanti, a un santo protettore il quale gli aveva garantito un posto statale (in quei tempi di abbondanza ancora elargibile a chiunque fosse fedele) in cambio di qualche decina di preferenze in cabina. Più ne avrebbe portate, maggiori sarebbero stati stipendio e prestigio una volta eletto e conteggiati i seguaci. Espletato l’incontenibile bisogno, Mimmo Perullo era ritornato in postazione con fare altero dispensando disprezzo mentre fendeva la folla di supplicanti, come un prete con l’aspersorio. Una volta che si era finalmente deciso a svolgere per almeno un quarto d’ora il proprio compito quotidiano di usciere, aveva indossato i panni sacrali di dipendente comunale raccomandato divino e aveva sentenziato, con calma biblica, monosillabi illuminati al volgo dei paria in rassegnata attesa davanti alla piccola cappella, una Porziuncola nella Basilica maggiore.

 Non appena Lucia Speranza era entrata in macchina si era scatenata una pioggia fitta e pesante che rimbombava sulla carrozzeria della piccola utilitaria. Era uscita dal parcheggio immettendosi nel traffico che, come succedeva in simili occasioni, d’improvviso si era congestionato. I negozi stavano chiudendo, i marciapiedi si erano svuotati e le auto in coda avanzavano di un metro ogni quarto d’ora. Aveva azionato la seconda velocità dei tergicristalli perché l’acqua veniva giù a secchiate e acceso la radio. Era sintonizzata sempre sulla stessa emittente locale che trasmetteva ininterrottamente da quarant’anni brani pop a richiesta con dediche e intermezzi del conduttore dalla voce impostata su banalità ricorrenti. Una volta aveva convinto Salvatore a dedicarle un pezzo a sua scelta ma quest’ultima era ricaduta su una canzone dal testo inappropriato poiché parlava di un tradimento coniugale. Ne era seguita una discussione con lite, conclusa con l’accettazione amara della sua mancanza di sensibilità, non solo artistica. Salvatore, poi, aveva cercato di rimediare ma non aveva più trovato la linea libera. La pioggia era diminuita mentre l’ingorgo non si scioglieva, anzi il frastuono dei clacson spazientiti sembrava produrre l’effetto contrario alla soluzione dello stallo in atto. Lucia Speranza si era resa conto che non avrebbe più fatto in tempo a raggiungere il negozio di bomboniere ed era inutile confidare nel fidanzato o nei suoi genitori, in mancanza della sua irrinunciabile presenza. Ogni particolare del matrimonio doveva ottenere la sua approvazione, finanche il discorso del parroco durante la funzione religiosa. Tutto avrebbe dovuto filare liscio, alla perfezione, senza possibilità per i presenti di sollevare obiezioni di sorta o critiche negative sull’intero evento, dall’entrata in chiesa all’uscita dal ristorante. Semmai avrebbe dovuto suscitare invidia che a quella sapeva come rimediare con i riti apotropaici della nonna prediletta. Ci si sposava una volta sola nella vita e almeno quella avrebbe dovuto essere la giornata perfetta e memorabile, oltre le foto e i video imperituri. Forse sarebbe stato meglio avvertire i suoi genitori del ritardo, la situazione non migliorava affatto, era tutto fermo e con quel tempaccio non si vedeva un vigile in giro. Quelli, del resto, non comparivano nemmeno negli ordinari orari di servizio, figurarsi con un tempaccio simile. Intanto la pioggia aveva ripreso a scrosciare con forza penetrando nell’abitacolo. Aveva chiuso i vetri, attivata la ventola interna e colpito ripetutamente il pulsante del clacson unendosi così al concerto in pieno centro cittadino.

 Carmine Abbascio continuava la sua traversata in solitaria della città, a quell’ora spopolata. Altrimenti non avrebbe potuto dare un’occhiata in giro alla ricerca d’improbabili novità – eccetto i ricorrenti lavori stradali – negli altri momenti in cui era affollata di gente ed esercizi commerciali in attività. Soffriva di attacchi di panico perfino alla presenza di se stesso. Era ansioso, nevrotico, ipersensibile, insicuro. In una parola: fragile. Aveva abbandonato l’università, facoltà di psicologia, dopo anni infruttuosi (zero esami). Già la licenza liceale era stata un traguardo difficoltoso, in special modo l’esame di maturità con commissione esaminante esterna. Aveva iniziato a balbettare come in ogni situazione di disagio, quando di norma non era balbuziente, cioè da solo o con i genitori, sebbene con il padre talvolta incespicasse sulle parole che tardavano a uscire quando si rivolgeva a lui senza farsi preannunciare. Non aveva né fratelli né amici e frequentava malvolentieri lo psicologo (ne aveva inutilmente cambiati tanti, alternando i sessi, con lo stesso risultato negativo). Preferiva lo psichiatra perché gli prescriveva i farmaci senza tante chiacchiere. Di ragazze nemmeno a parlarne. La sua sessualità, quando si
risvegliava sotto la coltre di benzodiazepine e paroxetina, era di tipo autoerotico. Difatti si masturbava all’occorrenza davanti allo schermo di uno smartphone. Il suo organo riproduttivo, per quanto a volte sfregato, rimaneva uno dei pochi posti incontaminati della Terra. Appena vedeva una persona non identificata che stava incrociando il suo cammino, immediatamente cambiava strada con lo sguardo basso. Non correva il rischio di essere chiamato o riconosciuto da alcuno. Anche i suoi vecchi compagni del liceo lo avevano dimenticato. Non era mai stato il tipo che si mettesse in luce. Se, oltre l’ultimo banco in classe, ci fosse stata la parete abitabile, si sarebbe sistemato lì dentro con libri e quaderni. Da solo. Quando gli toccava essere interrogato, la sua faccia alla cattedra, al centro degli sguardi dei compagni e delle domande dell’insegnante, assumeva il colore dell’arcobaleno dopo la tempesta che naturalmente seguiva la prova. Così fioccavano le insufficienze e i risolini di scherno. Nonostante ciò, alla fine dell’anno riusciva a farsi promuovere con una stentata sufficienza da parte dei professori poiché non difettava d’intelligenza. E nemmeno di bellezza, solo che bisognava saperla cogliere tra le smorfie del viso che cercava di perdere la faccia e degli occhi socchiusi che rincorrevano l’invisibilità o la cecità. Amava da sempre leggere, un piacere che si sposava a meraviglia con la sua solitudine. E quest’ultima era la sua unica compagna di vita, ormai una sposa.

 All’uscita dal bar, dove aveva consumato un Campari con gin, un panino secco al prosciutto salato, una birra media alla spina e un caffè corretto con sambuca, Pietro Taùto stava fumando la solita sigaretta mentre guardava di fronte a sé l’agenzia di scommesse. Scambiava due chiacchiere alcoliche con i pochi avventori perditempo presenti, guardando l’orologio. Aveva deciso di recarsi allo stadio dove era in programma l’allenamento della locale squadra calcistica dal passato glorioso che egli stesso aveva vissuto in prima persona come tifoso quando aveva la stessa età dei suoi due figli di quindici e diciassette anni. A quel punto si era ricordato di avere una famiglia a casa, pertanto aveva tirato fuori dalle tasche il cellulare e chiamato quello della moglie. Occupato. Atteso il tempo di un’altra sigaretta, aveva riprovato con lo stesso esito. Aveva rinunciato stizzito avviandosi all’auto parcheggiata da ore in un posto riservato agli invalidi. Mentre guidava senza cinture, aveva fatto un paio di telefonate a frequentatori abituali di altre sale giochi per analizzare l’andazzo della situazione, alla stessa maniera degli operatori finanziari circa l’andamento del mercato azionario. E la sua mimica, vista dall’esterno da eventuali osservatori di passaggio, ricalcava perfettamente l’atteggiamento equivalente nonostante il divario di attività e la differenza di lessico e abbigliamento. Arrivato nella tribuna
che ospitava il pubblico infrasettimanale, Pietro Taùto aveva dispensato risate sguaiate, strette di mano energiche e pacche robuste sulle spalle ai rappresentanti del centro coordinamento club, agli esponenti della tifoseria ultras e agli organizzatori delle trasferte al seguito della squadra. Senza mancare di salutare i semplici tifosi abituali. Si era accomodato sul seggiolino e, con l’immancabile sigaretta in bocca, dapprima aveva ascoltato le chiacchiere che circolavano su questo o quel calciatore della squadra che esulavano dal lato prettamente tecnico-agonistico, poi si era informato sulle notizie calcistiche nazionali riguardo l’aspetto delle puntate di gioco con le percentuali di vincita, infine aveva elaborato all’istante, in collaborazione con gli esperti presenti, un sistema multiplo di giocate valido per i campionati esteri sul numero dei goal realizzati. In questo clima a metà tra il giocoso e il lavorativo era terminata la partitella di allenamento dei calciatori, quindi all’uscita di scena di questi ultimi dal terreno era seguita quella dei tifosi e dei giocatori d’azzardo, dei quali Pietro Taùto rappresentava il connubio perfetto. Una volta in macchina aveva guardato ancora l’orologio delle sue frenetiche giornate e senza un obiettivo prefissato era partito in direzione del centro cittadino dove le maglie dei comportamenti quotidiani certamente avrebbero indirizzato al meglio le sue residue energie, con l’obiettivo preciso di vincere. C’era tempo fino all’ora di cena, era il momento di raccogliere il seminato.

 Era capitato, a dispetto delle migliori intenzioni, che i condomini dimenticassero di rifornire di cibo le ciotole di Piglio perché presi dai quotidiani meccanismi di vita familiare o che ognuno
facesse affidamento sulle altrui azioni, sottraendosi al proprio compito per pigrizia o egoismo, come succede con i gruppi numerosi alle prese con comportamenti personali non obbligatori. Piglio, comunque, abituato da sempre alla vita randagia sapeva cavarsela in ogni frangente, dalla pioggia o calura, alla fame o sete. Specialmente da quando in città era partita una raccolta a domicilio della spazzatura che aveva portato alla dismissione di quegli inutili cassonetti sigillati di ferro, ogni angolo del quartiere era una fila di sacchetti biodegradabili conferiti in strada senza gli appositi contenitori di plastica. Era già un fastidio dover scendere la sera a depositare l’immondizia nei giorni prestabiliti che sobbarcarsi anche la fatica di dover ridiscendere a ritirare la propria pattumiera, gratuitamente al posto degli addetti comunali, sarebbe stato troppo. Mancava solo che avessero dovuto depositarla direttamente al centro di smaltimento con i propri mezzi. Questo sistema aveva portato a soddisfare le esigenze alimentari dell’esercito di randagi presenti in città, nella fattispecie cani e gatti. Talvolta, vista l’abbondanza dell’umido in strada e il ritardo nel ritiro da parte degli operatori ecologici (in perenne agitazione per la mole crescente di lavoro), c’erano spedizioni di stormi di gabbiani dalla vicina costa. Non evitavano di servirsi alla mensa a cielo aperto anche ratti di fogna e piccioni di piazza. Piglio si univa a questo esercito di utenti nei casi di sporadica emergenza poiché era stato adottato da gente abituata alla buona tavola, ma non rinunciava a una capatina quando scattavano quelle voglie improvvise di degustazioni prelibate. E il superfluo non mancava mai in quei sacchetti all’aria aperta anzi spesso ne era l’essenza principale, come succede nelle società civili del primo mondo, soprattutto nei loro angoli meno abbienti.

 


Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *