L’avvocato Alfonso De Benedictis continuava a girare in casa immerso nei suoi pensieri. Passava dallo studio al salone, dalla cucina al soggiorno attraverso il lungo e semibuio corridoio
addobbato di piante. La moglie aveva accompagnato i nipoti al cinema assieme alla figlia. Suo genero, un socio di minoranza del suo affermato studio associato, era appena andato via. Avevano discusso a quattr’occhi dell’argomento che gli albergava in testa nell’ultima settimana. Gli interessava sapere cosa ne pensasse nel merito, poiché non si era ancora espresso, e l’avvocato era curioso del suo parere di minoranza. Naturalmente, con chiunque avesse a che fare, dal barista al presidente del tribunale, dai nipoti alla moglie, dai soci dello studio ai colleghi del foro, era fuor di dubbio la propria superiorità umana, morale e professionale. In special modo quest’ultima che aveva indirizzato la sua intera vita verso questo convincimento. Tutto quello che aveva costruito, la posizione sociale raggiunta, ogni traguardo tagliato era stato guadagnato sul campo con l’impegno supportato dal talento e dall’ambizione. Nulla gli era stato donato per grazia di Dio o frutto del caso. Aveva saputo conquistare ogni singola vetta, puntando quelle più alte e impervie, solo grazie alla propria forza non comune e pure questa forgiata da sé con caparbia. Proveniva da una famiglia modesta, il padre aveva un piccolo negozio di merceria dove nel retrobottega la madre effettuava lavoretti di sartoria. Figlio unico, tutte le attenzioni dei genitori erano state rivolte a lui che sin da bambino aveva mostrato dedizione e applicazione nello studio, una serietà fuori dal comune che si manifestava nell’ambito familiare e scolastico. Dimostrava più anni di quelli avuti, a qualunque età. Non aveva mai giocato, non aveva mai chiesto giocattoli né sprecava il tempo in futili distrazioni. Aveva sempre frequentato dalle elementari la parrocchia del suo quartiere popolare, era stato chierichetto e assiduo nei corsi di catechismo anche dopo i sacramenti di prima comunione e cresima. Si confessava tutte le domeniche e pregava in chiesa. A casa studiava. I suoi genitori, non essendo cattolici praticanti, tantomeno credenti, avevano temuto che il figlio avrebbe scelto il seminario per vocazione. Avevano tirato, invece, un sospiro di sollievo quando a quattordici anni il giovane Alfonso aveva preso la tessera del Partito democratico cristiano nella principale sezione cittadina, fucina di eccelse menti politiche preparate all’assalto del panorama nazionale. E ora a settant’anni, nel pieno di una maturità mentale sfavillante, unita a una fisicità ancora efficiente, dopo una vita di eccellenza professionale, ecco che era arrivata questa proposta inaspettata: correre alle elezioni amministrative cittadine per la carica di sindaco.
L’usciere comunale Mimmo Perullo era particolarmente stanco e annoiato. La guardiola di vetro gli sembrava una gabbia di ferro. La sedia di similpelle con i braccioli, uno strumento di contenzione. Con i gomiti appoggiati sul ripiano di legno incassato nel muro, la faccia riflessa nel vetro circolare rimandava dall’altra parte, dal lato del pubblico, il suo mezzobusto indolente come uno svogliato speaker del telegiornale in procinto di comunicare le notizie appuntate sui fogli. Guardava senza vedere il passaggio di gente che attraversava di fretta il cancello diretta agli uffici. Stranamente nessuno si accostava al suo sportello informativo, neppure gli lanciavano un’occhiata distratta. D’altronde, tutto ciò che doveva rispondere l’aveva ben detto nelle lunghe giornate di sei ore del suo trentennale impiego: in fondo a destra, su al primo piano, allo sportello quattro, il modulo è sul tavolo di fronte. Non aveva nemmeno voglia di sfogliare il quotidiano locale, appena sfiorato dalle sue dita. Non aveva ancora digerito la peperonata della sera precedente e, nonostante il bicarbonato ingurgitato all’una di notte, gli era rimasta sullo stomaco senza andare né giù né su. Sicuramente la colpa era dei peperoni rossi perché quelli gialli e verdi non erano pesanti. Forse avrebbe dovuto mangiare più leggero la sera specialmente quando a pranzo non si era risparmiato alcuna briciola che fosse una. L’appetito, a dire il vero, non gli mancava mai, che fosse colazione, pranzo o cena. Solo che, a poco più di sessant’anni, avrebbe dovuto avere più riguardo del suo stomaco soprattutto se non avesse voluto rinunciare alla colazione di caffellatte e brioche, com’era stato costretto a fare quella mattina, accontentandosi di un misero caffè amaro. Erano ancora le dieci quando aveva deciso che fosse l’ora buona per andare al bar dell’ufficio, chissà che un altro caffettino non avesse dato la stura alla sua pancia, in un verso o nell’altro. Non appena si era alzato dalla sedia si era reso conto che, da quando era stato assunto tre decenni prima, non era mai stato due ore di fila seduto al suo posto, forse neanche una. C’era da preoccuparsi: stava davvero male.
Lucia Speranza, trentadue anni appena compiuti, si apprestava a chiudere il negozio di una nota catena internazionale d’intimo dove lavorava in veste di commessa da quasi dieci anni. Negli ultimi due era passata dal contratto part-time di ventiquattro ore settimanali a quello a tempo pieno di quarantotto, sebbene ne avesse sempre svolto non meno di cinquanta. Poiché la paga – nero sottobanco compreso – era più che raddoppiata passando dai due o trecento euro ai cinque o seicento, aveva potuto decidere, con la relativa sicurezza economica (e con l’aiuto del trattamento di fine rapporto del padre prossimo alla pensione), di poter convolare a nozze con l’amato Salvatore con cui era fidanzata da dodici anni. Anche quest’ultimo era indubbiamente avanzato nel lavoro essendo stato assunto a tempo indeterminato, a soli trentaquattro anni, nella veste di guardia giurata dopo lunghi anni di precariato come manovale edile dapprima, in seguito venditore porta a porta di enciclopedie, poi rappresentante di pentole a domicilio. Vivevano entrambi con i propri genitori come la maggior parte dei loro coetanei in Italia, ma ancor di più nel meridione della penisola. Aveva aspettato che si fosse asciugato il pavimento lavato, quindi aveva iniziato a spegnere le luci interne e prelevato dalla cassa il magro incasso quotidiano da consegnare a casa della proprietaria prima di rientrare nella sua, come d’abitudine. Regolata la luce notturna delle vetrine, si era avviata all’uscita. Minacciava pioggia ma fortunatamente aveva trovato parcheggio proprio lì vicino. Ora che il comune era in dissesto, le
tariffe dei parcometri erano aumentate al massimo consentito e non poteva più permetterselo per tutto l’orario lavorativo altrimenti avrebbe lasciato la sua paga giornaliera nelle casse municipali. Aveva dato due giri di chiave alla porta a vetri e fatto partire la motorizzazione della serranda. Forse avrebbe potuto fare un salto al negozio di bomboniere. Se non ci pensava lei a certe incombenze, a Salvatore sarebbero occorsi altri dodici anni per decidersi a seguirla nel progetto matrimoniale da lei elaborato nei minimi dettagli.
La mattina presto era per Carmine Abbascio, ventisette anni, il momento adatto per fare un giro nella città vuota di gente ancora a letto. Se ci fosse pure stato un cielo grigio malinconico sarebbe stato l’ideale. Accostato piano l’uscio di casa per non disturbare il sonno dei genitori era sceso a piedi dal sesto piano. L’ascensore faceva troppo rumore in quel silenzio assopito e mai avrebbe voluto disturbare gli altri, facendosi notare. Allo stesso modo aveva accompagnato lo scatto del portone del palazzo ritrovandosi nella piazza deserta. Due gatti, accovacciati tra il marciapiede e un’auto in sosta, sbadigliavano indifferenti al passaggio sbilenco di un cane randagio male in arnese. Non appena si era ritrovato ad attraversare l’autostazione degli autobus, aveva fatto capolino in petto il primo batticuore della giornata seguito da una crescente aritmia cardiaca. Era inutile respirare profondamente, fare una serie di respiri regolari in successione assistita. Copiose goccioline di sudore calavano dalla fronte infreddolita fino alle labbra lasciandogli sorseggiare la prima amarezza immotivata della giornata. Come sempre, appena metteva piede fuori di casa lo assaliva una sequenza di primizie a suo danno. Malesseri che lo accompagnavano dalla preadolescenza dopo un’infanzia di singhiozzi e pianti. Come fosse stato partorito col dolore del mondo, gemello della sofferenza. I genitori erano stati accampati negli studi medici a cominciare dal pediatra, specialmente la madre, angosciata da quegli strazi seguiti a un vagito ininterrotto. E poi un’adolescenza di mille paure: della gente, degli animali, delle piante, della vita, della morte. Evitamenti e fughe erano stati il suo costante comportamento dentro un campionario di manie senza fine. Eppure stava seguendo alla lettera le indicazioni dello psichiatra circa la graduale diminuzione delle gocce di ansiolitici con l’analoga somministrazione di antidepressivi di nuova generazione. Ma, di generazione in generazione, aveva già collezionato un bell’albero genealogico di psicofarmaci. Niente alcol, poche sigarette, qualche caffè. Tutto il resto, oltre le sedute settimanali dallo psicologo, avrebbe dovuto mettercelo lui stesso, gli avevano ripetuto. Invece continuava a diventare il resto di qualcun altro che faticava a essere un corpo unico. Carmine Abbascio era tanti pezzettini sparsi qua e là, dimenticati nella prima curva e scomparsi sul successivo rettilineo.
Pietro Taùto, quarantasette anni mal portati, ufficialmente disoccupato, si era appena affacciato sulla soglia dell’agenzia di scommesse accendendosi una sigaretta dal terzo pacchetto dei quattro giornalieri e mentre la aspirava avidamente guardava distrattamente il traffico scarso in strada e il marciapiede deserto, incerto sul da farsi: rientrare o avviarsi verso casa. L’ora di pranzo era passata da un pezzo come qualsiasi altra scadenza usuale che segnava la vita delle persone impegnate, di norma, nelle attività quotidiane. Di normale nella sua vita, invece, c’era ben poco e di abituale il vizio composto da tante sfaccettature: fumo, alcol, puttane, scommesse e giochi vari ed eventuali. Ottanta sigarette al giorno, svariate bottiglie di birra tra una carta e l’altra, quattro o cinque bicchieri di vino a pranzo e a cena, amari e cognac al bar, scommesse legali o clandestine su calcio e cavalli come professione e slot machine come passatempo. Donnine trovate o cercate in strada, alla bisogna. Era entrato tre ore prima nella sala con sessantacinque euro e trentacinque centesimi, ne usciva con settantacinque e quarantacinque. Non male, aveva pensato, solo perché non ci si era messo d’impegno altrimenti, avesse dovuto seguire i suoi eccessi nel gioco, avrebbe dovuto chiedere un prestito, ma il suo credito era crollato da molto, forse dai tempi del bingo o addirittura delle tombolate natalizie in famiglia. Si era acceso un’altra sigaretta col mozzicone ancora in mano e soffiando il fumo in aria aveva tirato via dalla tasca dei pantaloni le chiavi dell’auto e attraversato la strada con falcate veloci. Rimaneva il tempo di un Campari. Un aperitivo non si negava a nessuno, specialmente a un vincitore.
Era disteso sul suo giaciglio rimediato alla bell’e meglio dagli abitanti del condominio. Qualche strato di sottile gommapiuma con coperte sdrucite sopra, addossato al muro di fianco all’entrata di un grande caseggiato. Il portinaio gli proibiva l’ingresso nel cortile ma permetteva che rimanesse nelle adiacenze. L’età iniziava a farsi sentire dopo anni trascorsi in mezzo alla strada. Quest’ultima sistemazione, però, sotto l’ampia balconata del primo piano offriva un riparo sicuro dalle intemperie. Non gli mancava mai l’acqua potabile né una ciotola di cibo. Non era ingordo, anzi, una volta sazio lasciava che anche i gatti randagi del quartiere si servissero alla sua mensa della carità. Gli mancava solo un bagno frequente e i ragazzini provvedevano talvolta d’estate con secchiate d’acqua sul suo pelo fulvo e increspato, un incrocio tra un maremmano e un labrador. Piglio, una decina di anni almeno, si accontentava di poco, di una carezza distratta o di un osso di scarto. Ringraziava scodinzolando, sotto il cielo ogni cosa era un dono specialmente per chi era da sempre abituato a soffrire. Per fortuna la natura lo aveva dotato di un carattere mite, altrimenti con la sua mole avrebbe potuto avere buoni motivi per essere aggressivo.

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