Un tuono potente aveva squassato il silenzio e il sonno dell’avvocato De Benedictis. Il temporale era tornato sulla città di Nguaiata, anzi non se n’era mai allontanato troppo con la sua batteria di fulmini e lampi, una cappa nera e
minacciosa che dall’alto oscurava il territorio sottostante già flagellato da uomini irresponsabili e dal destino spietato. Aveva acceso l’abatjour e guardato l’ora sotto coltri fradicie. Spenta la luce si era lasciato avvolgere dal tepore della stanza. Ma non aveva ripreso a dormire, con gli occhi spalancati nel buio di fianco alla moglie che ronfava col respiro pesante a bocca aperta. Ricordava che da bambino, da solo nella sua camera, rimaneva paralizzato dal terrore ogniqualvolta si destava all’improvviso nelle tenebre, con la tentazione di scappare nel letto dei genitori. Si sforzava di trattenere il pianto ma lacrime di paura gli scendevano sulle guance di piccola creatura cresciuta prima del tempo, come sentiva ripetersi dai grandi, persuadendosi di esserlo e rassegnato a questa sorte. Visto che gli uomini in terra lo volevano forte, aveva cercato l’aiuto del cielo con la preghiera. Quindi di notte pregava a lungo finché non si riaddormentava, sollevato da una solitudine troppo severa per la sua infanzia. Di giorno, invece, aveva cercato il conforto alla sua fragilità nella parrocchia del suo quartiere. Così come nella sua adolescenza aveva trovato rifugio al suo smarrimento nella segreteria del Partito che lo aveva protetto nel cammino di fede sotto lo scudo crociato, eleggendolo uomo senza macchia. Aveva trovato la pace interiore e la forza esteriore per farsi largo tra i non predestinati. Ora, però, in quella tormenta le tenebre tornavano a spaventarlo e non ne capiva la ragione nonostante la realtà sfilacciata e indecifrabile che investiva la contemporaneità nel suo complesso. Cominciava, forse, a sentirsi vecchio prima del tempo pagando dazio alla sua precocità? Cosa stava succedendo alla sua tempra inossidabile? Erano le forze della natura a inquietarlo? Respirava profondamente per calmare l’agitazione ma una sottile tachicardia continuava in sottofondo a relegarlo nella schiera dei comuni mortali sentendosi nelle vesti sconosciute di un mendicante privato dell’elemosina e scacciato dal tempio del Signore. Non era valso a nulla rileggere mentalmente il suo nutrito curriculum. La bufera cancellava le scolorite scritte di gesso sulla lavagna della sua vita passata.
Mancava poco meno di un’ora alla fine della giornata di lavoro sempre più faticosa, pensava Mimmo Perullo pregustando il piatto di spaghetti al sugo, rigorosamente al dente, la bistecca di manzo al sangue e l’insalata verde condita con l’aceto balsamico, pane casareccio per la scarpetta destra e la sinistra. Sua moglie continuava a frantumargli gli zebedei (seppure la sua espressione, in verità, fosse più colorita) sollecitandolo a controllare i valori del sangue, esami di laboratorio di cui non ne voleva assolutamente sapere alcunché (a dirla eufemisticamente, senza ricorrere al suo lessico dialettale) perché si sentiva benissimo e non aveva voglia di sottoporsi a un digiuno – parola impronunciabile – che fosse anche limitato nel tempo del prelievo ematico ma insopportabile alla sola idea di non poter aprire il frigo di notte, un rituale sacrosanto. Di esami nella sua vita non ne aveva superato nemmeno uno! C’era un gran movimento ai piani superiori, l’amministrazione in carica era giunta alla fine del mandato, erano state indette nuove elezioni. Non aveva più niente da chiedere alla politica della sua città, il figlio era sistemato, lui in attesa della pensione. Sarebbero entrati nel Palazzo nuovi protagonisti a cominciare dal sindaco, sarebbero cambiati gli assessori ma dirigenti e impiegati sarebbero rimasti conficcati nel loro posto. Poco gli importava di tutto ciò, ne aveva già viste di queste giostre in trent’anni. Spettacoli, in fondo, tutti uguali recitati sullo stesso palco sempre più usurato. Si augurava soltanto che la portineria non si restringesse ulteriormente e che non fossero costretti a sedersi a turno. Purtroppo il pubblico pagante avrebbe continuato a sciamare tra i corridoi e negli uffici, una folla impazzita di utenti all’ultimo stadio intossicati da false aspettative, latori di istanze marce, sempre più indisciplinati e rumorosi, irrispettosi dei lavoratori ai piani bassi, pronti allo scontro accampati lungo le mura in attesa dello sfondamento per accedere ai piani alti. Avrebbe voluto dell’olio bollente da scagliare addosso agli assedianti ma ormai i suoi ardori erano svaniti assieme alle speranze: non avrebbe sprecato una sola goccia d’olio che non fosse stato per le patatine fritte. Che andassero loro a farsi friggere (o fottere, come realmente pensava), a lui mancava poco per tornare finalmente a casa.
Lucia Speranza aveva messo da parte un bel po’ di risparmi negli ultimi dieci anni. Viveva a casa dei suoi e, approfittando del suo stato di figlia unica viziata, non contribuiva in alcun modo
all’economia della famiglia lasciando ogni incombenza finanziaria sulle spalle del padre paziente che aveva pagato le rate del mutuo, le bollette e le spese alimentari. Abusava dell’affetto della madre per farsi comprare capi d’abbigliamento, borsette e quant’altro di attinente alla sua mise – peraltro con soldi provenienti dalla stessa inesauribile fonte – e di quello della nonna per estorcerle denaro per cellulari o computer. Per il resto si rivolgeva a Salvatore, pronto a esaudire ogni suo desiderio a proprie spese e a quelle del padre recalcitrante. Con il pretesto che guadagnava poco, non spendeva nulla di suo che metteva a frutto in fondi d’investimento, obbligazioni e buoni postali di cui vantava una discreta conoscenza. E piccole somme su piccole somme, si stava costruendo un grosso totale. Queste operazioni le svolgeva nel massimo riserbo tacendo portafoglio e utili all’intera famiglia e al fidanzato, potendo in questo modo continuare a piangere miseria. Aveva anche omesso di comunicare ai suoi dell’aumento di stipendio ottenuto dopo anni di richieste inascoltate dalla proprietaria, una cinquantenne divorziata, amante della bella vita, che possedeva anche un sexy shop e un centro massaggi dove si occupava personalmente della gestione e dei suoi traffici ambigui. Lucia era attratta dalla personalità spregiudicata e senza scrupoli della donna di cui continuava a studiare, squadrandola, la mentalità disinvolta. Quando le consegnava la sera l’incasso, si fermava, nel caso non avesse avuto ospiti perlopiù maschili, a bere un drink e ad ascoltare le sue perle di saggio cinismo. Ne osservava il vestiario discinto e il trucco volgare, le movenze provocanti, gli
atteggiamenti da adescatrice, pendendo dalle sue labbra quando raccontava particolari delle sue avventure amorose, finalizzate all’estorsione passionale con fini ricattatori abilmente velati, accompagnandosi con uomini già impegnati o diversamente compromessi. Naturalmente Lucia stava sulle sue non rivelando alcunché delle sue faccende amorose o delle sue operazioni finanziarie, continuando, nel corso del loro lungo rapporto di lavoro, a recitare la parte della futura sposa – ruolo in cui si specchiava a pennello – e della ragazza ingenua di provincia quale, tutto sommato, era. Aveva bisogno di modelli cui ispirarsi ma senza imitarli, riconoscendosi peculiarità personali e attribuendosi originalità di carattere oltre a una buona dose di complessi di superiorità che la distingueva da tutte le altre, essendo il suo campo di competizione l’universo femminile cui cercava di sottrarre con le sue armi l’intero mondo maschile. Tutte le volte che usciva da quella casa, il suo pensiero vincente era che lei fosse ancora giovane e non già vecchia e che le cose che aveva sentito raccontare da quella bocca rifatta non erano altro che
patetiche più che peripatetiche. Lei, Lucia, aveva classe, soprattutto nel non sbandierare le sue conquiste con anima viva, non aveva bisogno dell’altrui approvazione e consenso. Timorosa soltanto del giudizio divino, contava ciecamente nelle indulgenze a pagamento, una volta ingrossato il suo portafogli già bello gonfio.
La pioggia aveva smesso di cadere sulla città lasciando su di essa una nuvolaglia scura e pesante che la offuscava di grigio sporco come una vecchia capigliatura scompigliata. Carmine Abbascio si ritrovava a suo agio nel paesaggio depresso, un vasto quadro di tristezza spennellata qua e là, l’animo sprofondato fin dentro gli angoli nascosti del panorama tratteggiato dalla malinconia, una tela nuda esposta senza cornice al suo sguardo sconfortato. Avanzava nel silenzio tra vie deserte e finestre chiuse. I cani randagi trotterellavano in branchi numerosi, bestie selvatiche nella radura di asfalto e cemento, ignorando la sua presenza solitaria. Nonostante l’ambiente congeniale alle sue patologie, leggeri campanelli d’allarme aumentavano d’intensità. Sentiva il respiro mozzarsi, incagliato tra l’esofago e lo sterno, il petto gonfiarsi sotto i colpi di un’aritmia crescente, un tremore agli arti inferiori lo destabilizzava nella stazione eretta pregiudicandogli l’equilibrio, lo stomaco in preda a un’agitazione rovente dentro le viscere. Era a secco di pillole e gli effetti delle precedenti erano in riserva fissa, una lucina sugli occhi che gli affogava lo sguardo in un eccesso di lacrimazione senza pianto. Si sentiva perduto e aveva cominciato ad andare alla deriva nel mare della sua angoscia. Camminava come un ossesso senza seguire la direzione che si apriva a caso sotto i suoi piedi incontrollabili, una marionetta indifesa tenuta in piedi dai fili dell’eventualità, col terrore di precipitare nella voragine della fatalità. All’improvviso decine di sirene gli stavano sfrecciando attorno in una corsa folle, motori spinti al massimo di ambulanze, autobotti dei vigili del fuoco e pantere della polizia. Un inferno scoppiato nei paraggi, un grosso incendio in uno stabilimento chimico, un’enorme nuvola di fumo denso e nero si levava in alto catalizzando l’interesse generale verso il disastro in corso. E alla vista del gigantesco pennacchio che attraversava il cielo, si era spento il fuoco interno di Carmine che aveva ripreso a respirare, vedere e camminare regolarmente senza l’assillo di essere al centro dell’attenzione dei suoi disattenti cittadini.
Arrivato nel suo quartiere, Pietro Taùto aveva parcheggiato l’auto a metà strada tra la sua casa e il bar dove stava entrando per l’aperitivo, appuntamento fisso. C’era poca gente, aveva ordinato il solito Campari che sorseggiava al tavolo mentre leggeva il giornale sportivo. Nel retro suo figlio Mario, con una birra in mano, giocava alla slot appollaiato sullo sgabello, la sigaretta stretta tra le labbra aspirava energicamente espirando il fumo dal naso come un toro infuriato. Pietro, dopo aver trangugiato il secondo Campari, aveva lasciato le monete sul banco senza aspettare uno scontrino che non sarebbe stato emesso ed era uscito per rincasare. Era buio, l’aria frizzante, con la sigaretta in bocca entrando nel suo caseggiato aveva lanciato un manciata di patatine fritte al grosso cane accucciato sul giaciglio all’ingresso, sotto un balcone. In casa la moglie Anna e il figlio Alfonso stavano mangiando a tavola con la televisione accesa. Pietro, entrato in cucina senza salutare, si era servito dalla pentola versandosi il minestrone nel piatto e si era seduto a capotavola. Puzzava come sempre di fumo e alcol nonché di sudore di ascelle. Mangiavano in silenzio, il volto della moglie contratto dalla rabbia, quello del figlio rivolto alla tv, in onda il quiz prima del telegiornale. Un concorrente aveva vinto una somma molto alta rispondendo esattamente alle domande del conduttore. Stava festeggiando circondato dalle graziose vallette con un bicchiere di spumante in mano col pubblico in sala che applaudiva ammirato quando Pietro, alquanto alticcio, guardando, nell’ordine, la cifra a cinque zeri in sovraimpressione sullo schermo, le cosce delle giovani vallette e la faccia anziana del vincitore, aveva esclamato, volgarmente in dialetto, che il pane andava sempre a chi non aveva i denti. Il figlio aveva subito replicato che la vincita era stata meritata con le risposte esatte nel momento in cui la moglie lo aveva ribadito spaccandogli il piatto vuoto in testa. Si erano accapigliati furiosamente e Alfonso era intervenuto in mezzo a separarli. Tra urla e minacce la disputa si
era spostata nel corridoio che fungeva da cassa di risonanza al tono rabbioso dello scontro in atto, più alto del volume di tutti i televisori del palazzo, del caseggiato e di buona parte del rione abituato e indifferente alle continue beghe familiari. I titoli del telegiornale non stavano menzionando l’entità della vincita, elencando, invece, la solita sfilza di notizie grame e avvilenti
di un intero Paese in perdita inarrestabile come lo scioglimento dei ghiacciai sulle Alpi.
Passando da una prigione all’altra con continui trasferimenti a causa del numero spropositato di ospiti, Piglio aveva avuto la fortuna di arrivare a Nguaiata. Qui il centro di accoglienza aveva
maglie larghe e controlli sommari, cosicché era riuscito nell’impresa che era divenuta la sua specialità, cioè l’evasione. In quell’occasione era stata, diciamo, agevolata non disponendo il centro dei fondi necessari alla normale sopravvivenza dei segregati. Per legge dovevano esistere queste strutture d’accoglienza ma Nguaiata era uno di quei luoghi dove la legge era interpretata di norma e applicata d’obbligo allorché si verificava un reato. Quindi, nello spazio e nel tempo intercorrente tra interpretazione e applicazione, esisteva il territorio anarchico del limbo che non aveva durata o estensione. Addirittura poteva esso stesso trasformarsi in convenzione o costume con tanto di regolamento non scritto. Uscito facilmente dall’ennesima contenzione, questa volta Piglio non era stato costretto alla fuga o alla latitanza bensì al randagismo, condizione, come già detto, tollerata nella città, sostenuta e confortata con azioni caritatevoli, attenendosi, però, a delle regole di comportamento tramandate verbalmente e socialmente accettate.

Lascia un commento