Il figlio dell’avvocato De Benedictis lavorava in una società internazionale di consulenza e servizi finanziari, nella filiale di Parigi, come business development manager. Giovane e brillante, si era laureato con lode nel capoluogo di regione in Economia e commercio, aveva conseguito un master in business management a Londra e in seguito un dottorato in governance and management for business innovation negli Stati Uniti. Rientrato in Italia, era stato assunto dalla società per la quale ancora lavorava, la Fin.Ser. Company, che aveva aperto una sede a Nguaiata grazie a una serie di finanziamenti europei, a fondo perduto, “a sostegno dell’implementazione e dello sviluppo delle imprese in territori depressi per la radicazione dell’economia e l’incremento dell’occupazione”. Nella filiale erano confluiti tanti rampolli delle famiglie dei maggiorenti locali, una nidiata di neolaureati retribuiti con fior di quattrini europei, detentori di master di secondo livello e titolari di PhD, i quali, nel giro di poco meno di due anni, avevano contribuito fattivamente all’eradicazione della società finanziaria dal territorio depresso con conseguente chiusura. Si erano eclissati i piani di investimento finanziario e sviluppo economico ma non i loro posti di lavoro, trasferiti all’estero in altisonanti località che facevano tanto curriculum, e stipendio. Come nel caso di De Benedictis jr. Il cui padre, ogniqualvolta doveva prendere un aereo per raggiungerlo, nei giorni precedenti ovunque si trovasse – nello studio con i sottoposti, in tribunale tra i colleghi, al bar o dal barbiere sottolineava il nome della capitale francese con la erre moscia e il raddoppio dialettale della lettera g, con la malcelata soddisfazione dell’uomo di mondo. Salvo poi, nel volo di due ore scarse, ingoiare a bordo un tranquillante e un betabloccante e passeggiare, in seguito, timidamente nelle vie parigine senza capire uno straccio di parola francese che non fosse un misero oui, saldamente abbarbicato al braccio della sua vivace moglie settantenne, professoressa liceale di matematica in pensione, giocatrice di burraco, animatrice di raccolte fondi per la Croce Rossa e intraprendente socia del Rotary cittadino. Sentenziando, infine, al ritorno a casa, che tutto il mondo era paese e che a Nguaiata, tutto sommato, non si stava poi tanto male.
Naturalmente anche Mimmo Perullo era stato giovane ed entusiasta. Dopo la terza media aveva abbandonato gli studi per mancanza di predisposizione genetica, così come gli altri tre fratelli (uno si era fermato alla licenza elementare). Si era, quindi, avviato nel mondo del lavoro,
dapprima in nero come cameriere in un bar, successivamente era stato assunto come apprendista presso un’autofficina meccanica dove aveva lavorato per qualche anno appassionandosi ai motori delle auto, tanto che appena conseguita la patente aveva acquistato con i suoi soldi un’automobile usata. L’aveva adoperata per dimostrare all’universo maschile la sua bravura alla guida nelle prestazioni modificate su strada e per attirare a bordo della sua spider parte dell’universo femminile in circolazione. Era un bel ragazzo, non molto alto ma dal fisico prestante, praticando il gioco del calcio in una squadra dilettante nel ruolo di attaccante scattante e rapido. A venticinque anni, il proprietario dell’autofficina era morto all’improvviso, pertanto l’attività era stata chiusa. Con l’esperienza accumulata avrebbe potuto farsi assumere da un altro
meccanico ma il padre, impiegato comunale dell’ufficio anagrafe, lo aveva convinto a fare il concorso per entrare nella stessa municipalità, essendo imminenti le elezioni amministrative, prospettandogli tutte le certezze di un lavoro statale a poche ore con stipendio sicuro mese per mese, con la possibilità di avanzamento nelle gerarchie interne e l’opportunità di pianificare il futuro mettendo su famiglia. Si era fatto convincere dal genitore votando lo stesso santo in paradiso del quale la famiglia Perullo era devota nei secoli dei secoli, accendendo ceri – preferenze – al suo altare in cambio di grazie ricevute – posti, denominati di lavoro. Rieletto il santo e sbrigata in quattro e quattr’otto la formalità del concorso truccato a dovere, a buon diritto aveva varcato l’ingresso comunale dirigendosi alla guardiola affollata di miracolati come la grotta del santuario di Nostra Signora di Lourdes. Sveglio com’era, aveva capito presto l’antifona imparando i codici comportamentali d’esecuzione quotidiana delle pratiche lavorative, dotandosi della chiavetta fidelizzata della macchinetta delle bevande calde (ancora non c’era il bar interno) e abbonandosi alla gazzetta sportiva. Disponibile, però, a esaudire ogni desiderio dei superiori senza troppa fatica o impegno, acquisendo l’onorifica carica di paraculo. Nel frattempo era anche convolato a nozze con una brava ragazza del suo stesso rione, amante della casa che teneva lucida come uno specchio e brava ai fornelli. La moglie ideale che dopo un paio d’anni di matrimonio gli aveva sfornato l’erede maschio, un bel bambino di oltre quattro chili. In ufficio Mimmo cercava in tutti i modi di migliorare la sua posizione, innalzando il livello contrattuale col relativo stipendio. Ma il santo faceva orecchie da mercante in assenza di elezioni e quando sopraggiungevano sgranava, tramite gli apostoli, il suo bel repertorio di promesse vane. Per anni aveva tentato la scalata almeno al gradino successivo ma la scala era riservata ad altri destinatari e a lui preclusa. Si era sconfortato tanto da abbandonare il calcio giocato e cercando la solidarietà della moglie che negli anni si era rivelata una maniaca ossessiva dell’ordine e pulizia, manco un gerarca fascista, e con lui parlava soltanto di ricette culinarie apprese alla televisione. Inoltre, a mano a mano che cresceva, suo figlio Salvatore gli si svelava sempre di più come il futuro coglione che sarebbe diventato. E il colpo di grazia alla sua impresa familiare, una volta fallita l’ascesa sociale, glielo aveva dato l’ingresso in casa della sua
futura nuora, una zoccola patentata come aveva intuito. Si era incupito e intristito visibilmente, nell’indifferenza della moglie e del figlio, dei colleghi e dei politici di riferimento, affogando la delusione e il dolore nel cibo che continuava a ingurgitare senza ritegno e freni.
Lucia Speranza aveva pianificato il suo matrimonio avvalendosi della collaborazione passiva della madre, dei consigli arcaici della nonna materna e dei soldi del padre rassegnato. L’evento sarebbe stato celebrato l’anno successivo a maggio, il mese mariano. La chiesa prescelta era il Duomo, la cattedrale cittadina nel centro storico con la sua ampia scalinata di accesso sulla quale già pregustava, dopo la funzione, la discesa alla Wanda Osiris, come una vera soubrette. Ci sarebbe arrivata con un’automobile a noleggio, una Mercedes Imperial station wagon di cinque metri, avendo dovuto scartare una limousine troppa lunga e ingombrante per gli stretti vicoli d’accesso al centro (e per la disponibilità economica del padre già dissanguato abbondantemente). Si sarebbe dovuta accontentare di appena centocinquanta invitati sui trecento proposti, faticando non poco a raggiungere quel numero grattando il fondo dei parenti e dei conoscenti, indispensabile, secondo lei, per il fascino della cerimonia, fondamentale, per il padre, alla dichiarazione di bancarotta. Dopo la funzione, mentre tutti gli invitati si sarebbero diretti nel lussuoso ristorante dell’unico prestigioso albergo a quattro stelle di Nguaiata, gli sposi, con fotografo al seguito, si sarebbero lasciati immortalare nel giardino principesco di una villa nobiliare disabitata, location abituale di servizi fotografici per cerimonie, fittato a caro prezzo dagli eredi decaduti. La sposa avrebbe sfoggiato un abito nuziale stile principessa Grace Kelly mentre lo sposo un modello Rocky Balboa, vere imitazioni originali acquistate sottocosto su eBay. Il ricevimento sarebbe andato avanti fino a sera, tempo necessario a degustare le numerose e raffinate portate innaffiate da un’abbondanza di vini e spumanti doc e igp, una festa luculliana al cui culmine sarebbe entrata in scena un’orchestrina di quattro elementi (trovata su internet dalla sposa) che si sarebbero accontentati, per il sollievo del papà, di un modesto cachet e della partecipazione all’abbuffata generale. Infine, dopo i balli tradizionali regionali tipo tarantelle e tammurriate, sull’onda del classico trenino i novelli sposi avrebbero distribuito le esclusive bomboniere e i confetti di prima qualità prima di eclissarsi nella matrimoniale prenotata ai piani superiori con vista su magnifici giardinetti, ritrovo abituale di tossici e alcolisti. E la mattina dopo, consumati e riposati, si sarebbero diretti in taxi al porto del capoluogo di regione per imbarcarsi sulla maestosa nave crociera in partenza per il Mediterraneo. Una favola. Ma la realtà era una zucca con i topi, non la carrozza coi cavalli e Lucia Speranza ancora Cenerentola, non la principessa. Difatti il padre era alle prese con i conti che non tornavano mai.
Il ristorante nell’albergo a quattro stelle era troppo caro per le sue sole tasche (il consuocero piangeva miseria e si appellava alla tradizione delle spese a carico del padre della sposa: un miserabile ingrato che avrebbe dovuto baciargli cristianamente i piedi per aver accolto nella sua famiglia un idiota come genero); gli invitati avrebbero dovuto essere non più di cinquanta se non
si fossero volute festeggiare le nozze con pane azzimo e fichi secchi; lo stesso menù era da contenere nella qualità delle portate e dei vini e spumanti per non sprecare le perle con i porci; il duomo era prenotato per i successivi due anni a prezzi di usura, motivo per cui la chiesa del rione sarebbe andata più che bene grazie al parroco accomodante; infine, il servizio fotografico nel giardino della villa nobiliare sarebbe stato sostituito da uno scenario bucolico gratuito, come ce n’erano a bizzeffe nei dintorni di Nguaiata. Avrebbe concesso, per amor paterno, il noleggio della Mercedes e l’orchestrina ma la camera matrimoniale da trecento euro per una notte era da riconsiderare a favore dell’imbarco notturno sulla nave crociera ormeggiata nel porto. Una notte romantica nel golfo? Altroché!
Aveva cominciato a venir giù una sottile pioggerellina quando Carmine Abbascio si stava dirigendo verso la periferia che presumeva più deserta del centro. Solcava a passi rapidi il marciapiede sconnesso sul quale, se fossero aumentati gli scrosci d’acqua, le mattonelle si sarebbero trasformate in trappole di schizzi fangosi. Nel vuoto del panorama circostante, pensava che la sua città assumeva sembianze inqualificabili di bruttezza sotto la pioggia, ancora più disgraziata del piovere sul bagnato, una miserabile creatura nuda e spoglia di fronte alla natura e alla civiltà, ambedue deturpate. Il grigio avvolgeva ogni cosa visibile attorno e l’invisibile non aveva colore neanche a occhi chiusi. L’atmosfera odorava di catrame sull’asfalto
viscido e scadente con buche profonde come carie mai curate. Ciuffi d’erba alta emergevano come torri sbilenche ai bordi di pietre abbandonate, che fossero fontanili o ruderi seppelliti nell’incuria, monumenti destinati all’oblio. Veicoli dimenticati e crepe negli intonaci vibravano nell’aria come sibili di coltellate nella pancia. Un’essenza di pietà si spandeva fin dentro gli angoli più nascosti, alla ricerca di un orizzonte aperto, affossata com’era nella sua trincea. Carmine si aggrappava alla sua solitudine incolmabile nella traversata del mare di gocce battenti, silenziose come aghi appuntiti di pino. Il rombo in avvicinamento di un autobus urbano lo aveva distratto dai suoi pensieri distanti. Il fumo nero, un triste pennacchio sulla vettura vuota di gente, un viaggio fantasma nel suo percorso verso il niente. E la periferia rimaneva ancora lontana.
Pietro Taùto, schiodatosi dal parcheggio deserto dell’Inps, per concludere in bellezza la serata si era fiondato nel Winner Club, una delle tante sale di videolottery e slot machine che erano sorte come funghi su tutto il territorio nazionale e Nguaiata, almeno in questo, non avrebbe potuto esser da meno. Vetrine oscurate, la porta che si apriva su un’entrata buia, scura come l’antro delle streghe al luna park. E questa notte artificiale era l’ambiente che accoglieva la variegata clientela tra flash di luce stroboscopica e suoni elettronici simili a richiami di flauti e pifferi subliminali su topi e serpenti incantati dalla malia, incapaci di resisterle. Pietro era a suo agio sullo sgabello incollato allo schermo colorato di rosso e nero accecanti, fiammate psichedeliche risucchiavano i suoi occhi su numeri e figure lisergiche, tra nuvole di fumo solforoso e miasmi mefitici. Era rilassato come sempre intento al gioco con capitale di dubbia provenienza, guadagnato grazie alle sue indubbie doti di imbroglione scafato. Agli angoli della sala, entità animate con occhi spiritati tentavano con voce arrochita di appioppare a facili prede logori biglietti vincenti, combinazioni fasulle, calcoli probabilistici fallaci, aggirandosi senza tregua da un punto all’altro della sala, anime in pena nella notte eterna. Loschi figuri con i capelli modellati da gel e dall’aspetto impomatato, con tono secco e deciso alle spalle dei giocatori, offrivano facili prestiti a interessi zero, restituibili in comode rate quindicinali. Nel disinteresse generale, qualcuno crollava a terra dallo sgabello, fulminato dall’ennesimo full sfumato o dalla musichetta decrescente a perdita irrimediabile, subitaneamente rimosso con scopa e paletta dal personale di servizio e scaraventato nella pattumiera sul retro del locale. Pietro continuava a vincere piccole somme con pochi tocchi sui pulsanti e colpi decisi alle manopole, da una slot a un video, raccogliendo esigui gettoni di gran soddisfazione. E passato all’incasso, uscito all’aria aperta, si sentiva leggero come prossimo all’immortalità. Deciso a festeggiare, a passi rapidi nel centro storico tra rovine elette a monumenti e crolli spacciati per restauri, si era diretto nella stamberga fatiscente della decana sessantenne delle prostitute nguaiate, ancora desiderabile come un copertone vulcanizzato, che lo aveva accolto col suo sorriso sdentato adatto all’unico servizio in dotazione alla ditta: il pompino ingoiatutto a dieci euro, saliva compresa.
Cadeva la pioggia e non era semplice bivaccare all’addiaccio ma il cuore di Piglio non si lasciava spaventare dalle perturbazioni meteorologiche. Si era allungato sul giaciglio e col muso
rasoterra guardava il mondo dal basso: scarpe della gente di passaggio, suole e gomme inzaccherate, camoscio e pelle, lacci, tacchi e punte che fendevano il tratto di strada davanti ai suoi occhi attenti e calmi. Gli pneumatici delle automobili due passi più in là, i cerchioni, i tubi di scappamento, il fumo acre, un continuo andirivieni di motori in sincronia col movimento lento delle sue orecchie rizzate. Cani al guinzaglio attraversavano i suoi paraggi zampettando di corsa, scrollando il mantello inumidito al seguito di padroni insofferenti e nevrotici. Voci di bambini capricciosi, infagottati dentro passeggini saettanti nelle pozzanghere, con gli occhi sgranati sul bestione accucciato. Gatti di strada riparati sotto auto in sosta si asciugavano a colpi di lingua il pelo bagnato. Gli alberi sempreverdi filtravano l’acqua paracadutandola al suolo con leggerezza. Padri e mariti, figli e fidanzati rientravano a casa bestemmiando il tempo inclemente. Donne e mogli sorridevano al telefonino, figlie e ragazze cantavano con gli auricolari, ognuna senza riparo dalle nuvole in lacrime. Una lumaca strisciava in diagonale su un lastrone di pietra sul bordo della strada, invisibile al tramestio circolante e al destino crudele. Piglio aveva teso fino in fondo le sue zampe addormentate e, giratosi su un fianco, aveva sospirato a lungo prima di chiudere gli occhi col muso rivolto al muro.

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