Blog a cura di Francesco Strazza

11. Mogli

Dopo che la moglie era andata a letto, l’avvocato De Benedictis era ritornato in salotto. Si era cambiato e messo in pigiama di pura seta con vestaglia misto lana e cachemire, ai piedi pantofole scamosciate in vera pelle. Non era uscito da casa tutto il giorno. Neanche tirato fuori dal garage le due auto di rappresentanza, una Jaguar e una Lamborghini, che guidava di norma con la sua signora al fianco mentre per i suoi spostamenti di lavoro si accontentava della Mercedes o della Bmw. Aveva deciso senza titubanze che mai avevano alloggiato nel suo smisurato ego: l’indomani avrebbe telefonato alle eminenze grigie per l’accettazione della candidatura. Pertanto avrebbero potuto mettere in moto la macchina organizzativa, si sarebbe affidato completamente agli spin doctors e agli strateghi della comunicazione, avrebbe concesso la propria immagine per i manifesti e i bigliettini propagandistici, corredati del suo nome a caratteri cubitali preceduto dall’esimio titolo. Avrebbe disbrigato tutte le formalità del caso (interviste a giornali, partecipazione a dibattiti televisivi, comizi, visite di rito e interventi a sorpresa) pur di arrivare quanto prima al giorno del giudizio popolare. Fare il sindaco di Nguaiata era una cosa estremamente semplice, ripeteva a se stesso, riuscita a cani e porci, eccetto al rappresentante del Movimento Peones capace di farsi silurare dall’opposizione dopo pochi mesi di mandato nell’indifferenza dell’intera nazione nonostante i fucili puntati sul Movimento, salito al governo del Paese grazie a un elettorato esasperato dai partiti tradizionali. E sotto la luce dei riflettori degli organi di stampa incuranti dell’avvenuto siluramento. Tanto per capire quanto contasse la sua città ai tempi correnti nel panorama politico del Paese. Infatti essa era in uno stato vegetativo permanente, tenuta in vita con ventilazione meccanica assistita e alimentata con nutrizione e idratazione artificiale. Avviata a un’eutanasia attiva indiretta se ce ne fosse stato il tempo, altrimenti destinata a una morte tormentosa tra mille sofferenze. Quindi, prima dell’evento indifferibile, era necessaria una corsa contro il tempo per ritagliarsi lo spazio di visibilità personale onde proiettarsi verso più ambiti palcoscenici una volta intrapreso il percorso politico che ormai non si negava a nessuno, eccetto ai competenti e ai qualificati. Era questo l’unico cruccio che si insinuava nelle sue granitiche certezze. Dall’alto della sua statura morale, professionale e civile, si domandava che problemi avrebbe mai potuto avere l’avvocato De Benedictis nella sua città, in assenza di un’opinione pubblica condivisa e in presenza di un tessuto civile rassegnato e indolente, abituato a decenni di disservizi spacciati per servizi, di appropriazioni indebite vendute come ridistribuzione collettiva, di illegalità diffusa chiamata tradizione. Dal basso, rispondeva, nessuno ma avrebbe fatto bene a guardarsi le spalle tra i suoi pari mentre dall’alto, Dio a parte, non c’era figura che avrebbe potuto oscurarlo. Era in piedi davanti alla porta finestra sul balcone, le mani strette a pugno, lo sguardo affilato sulla tenue illuminazione laggiù in fondo, come acque scure e melmose pronte a risucchiare alla minima disattenzione.

 Concettina, la moglie di Mimmo Perullo, aveva dieci anni meno del marito ma a cinquant’anni era sfiorita da tempo nelle fattezze come un fiore reciso. In menopausa da un secolo abbondante, era tanto in sovrappeso che avrebbero potuto timbrarla con scritte modello cartone da spedizione, quali alto-basso e fronte-retro, per configurarne la posizione esatta del corpo. In casa si aggirava in pantofole, grembiule e guanti di plastica indaffarata nelle pulizie della casa (spolverare, rassettare, lavare, lucidare) ma impegnata gran parte della giornata in cucina a preparare pietanze su pietanze della gastronomia tradizionale locale, fatta soprattutto di pasta fatta a mano (fusilli, orecchiette, gnocchi, ravioli). Nei momenti di pausa chiacchierava, urlando dalla finestra o ad alta voce sul pianerottolo, con le vicine di casa, casalinghe fino in fondo all’anima come lei oppure si concedeva il lusso quotidiano, dopo la telefonata strillata agli anziani genitori, della lettura di rotocalchi popolari seduta in cucina a controllare la cottura dei
cibi. Apparecchiava la tavola quando tornavano dal lavoro alla stessa ora i due uomini di casa, marito e figlio, distribuiva le abbondanti porzioni, sparecchiava dopo mangiato, lavava a mano piatti e pentole, scopava il pavimento e accendeva il televisore in cucina per seguire le telenovele italiane e straniere, passando da un canale all’altro. Nel frattempo il marito Mimmo sonnecchiava nella poltrona davanti al televisore in soggiorno lasciato acceso in sottofondo mentre il figlio Salvatore era rintanato in camera a dormire sul letto senza togliersi le scarpe e la divisa di vigilante, pistola compresa. Teneva il volume basso e la porta accostata per non disturbare il riposo dei giusti e alla fine delle trasmissioni, due ore dopo pranzo, metteva su la moka, serviva il caffè agli uomini sbadiglianti e ritornava nel suo regno ad approntare la cena, all’erta e vigile a soddisfare le richieste del marito e del figlio ogniqualvolta la interpellassero affettuosamente (Concetti’ e ma’, rispettivamente). Venuta sera, dopo cenato, aveva l’onore di sedere in soggiorno sul divano di fianco al marito sonnecchiante a guardare trasmissioni nazional popolari o a sorbirsi, annoiata ma sveglia, le partite di calcio sgranocchiando semi di zucca o popcorn. Aspettando la domenica benedetta per la messa e la passeggiata sul corso principale sottobraccio al marito col vassoio delle paste in mano. Trentacinque anni di matrimonio volati in un baleno seppur appesantiti dai chili accumulati giorno per giorno.

 Lucia Speranza, quando riusciva a tornare a casa nella pausa di pranzo o dopo la chiusura serale del negozio, consumato il pasto con i genitori, si rifugiava in camera davanti al pc trascorrendo così la maggior parte del tempo libero. D’altra parte Nguaiata era una città per vecchi, fatta a misura di noia, tedio e insofferenza. Chi non aveva i requisiti ideali per adattarsi al suo clima asfissiante, cercava la vita altrove, e di corsa. Chi, invece, si accontentava, incredibilmente godeva. Lucia non aveva più voglia di essere una ragazzina a trentadue anni, di passeggiare con le amiche, di bere cocktail nei locali della movida notturna né di frequentare le
discoteche tra orde di sballati e ubriachi folli. Coltivava il desiderio di metter su famiglia, di avere dei figli, una casa col mutuo, un lavoro sicuro con ferie estive al mare in albergo, un cospicuo conto in banca, un investimento previdenziale, una monovolume nuova, un cagnolino o un gattino, bei vestiti, qualche gioiello e un marito onesto e fedele. E una donna delle pulizie a ore, tanto ai pasti pronti ci avrebbero pensato la mamma, la nonna e la suocera. La pizzeria o il ristorante il sabato sera, la messa la domenica e la passeggiata sul corso insieme al marito e ai bambini con la fede al dito, il pranzo dai suoi o dai suoceri, il parrucchiere una volta a settimana e un giorno un negozio tutto suo. E così ogni volta si svegliava davanti al computer in sospensione con le pagine di Facebook in standby, quella ufficiale in bella vista e l’altra di Angiolina Angiolì in sottofondo. Con le solite finestre aperte sulle agenzie immobiliari, sulle concessionarie di automobili, gli istituti di credito online, le agenzie di viaggio, i negozi in franchising, gli allevamenti di animali domestici, i servizi a domicilio di lavoro domestico. Infine, ben oscurati all’altrui curiosità, i siti di incontri con i tanti account creati per un gioco che non aveva mai smesso di durare. In quegli attimi in cui la coscienza era intorpidita e allentato il controllo sulla razionalità, le passavano nella mente immagini fugaci di sé come ragazza seminuda in webcam, striptease completi per saziare un piacere esibizionistico ancora represso e una via facile e comoda di guadagno, un telelavoro da esercitare nella sua cameretta dietro le tendine al riparo dagli sguardi malevoli della sua triste cittadina di provincia, gretta e arretrata, inadeguata per il vero piacere da dare e ricevere. Più volte le sue fantasticherie erano state bloccate dalla suoneria del suo smartphone lampeggiante sulla scritta Tesoro, lasciata cadere nel vuoto dei suoi desideri inappagati.

 Dopo il diploma di maturità e gli anni senza successo all’università, stimolato dai genitori, Carmine Abbascio aveva accarezzato l’idea di cimentarsi nel campo del lavoro. Per lui si potevano ben usare termini presi alla larga e non strettamente cogenti riguardo al delicato argomento del lavoro e del lavoro giovanile, soprattutto in territori avidi di impiego retribuito come era tutta l’area geografica di appartenenza di Nguaiata e la sua provincia, come d’altronde l’intero meridione peninsulare e insulare. Un disastro in rapporto alla media nazionale, comunque al di sotto degli standard europei. Ma Carmine avrebbe potuto contare sul sostegno morale ed economico della famiglia (l’ammortizzatore sociale nazionale per eccellenza) che non lo avrebbe costretto a emigrare come tanti suoi coetanei nel nord del Paese o all’estero. Al contempo una fortuna e una sfortuna. Cosa avrebbe mai potuto fare per muovere i primi passi in quel mondo sommerso più di Atlantide? In quale settore, visto che poteva permettersi perfino di scegliere? L’unico interesse che coltivava era la lettura e allora i suoi genitori chiesero aiuto a un conoscente, proprietario di una libreria indipendente, l’unica della città oltre le altre due affiliate a grandi gruppi editoriali nazionali. E come poteva un commerciante rifiutare un favore a un direttore di banca? Inoltre, essendo i locali della libreria abusivi, un altro favore si poteva sempre richiedere a una dirigente responsabile del Catasto. E infatti Carmine Abbascio era stato
subito assunto con regolare contratto a tempo pieno e indeterminato nel negozio del centro cittadino sul corso principale, arteria pulsante e deambulante della città. Naturalmente la libreria, come le altre due, era frequentata dai genitori degli studenti solo nel periodo d’inizio delle scuole per acquistare gli obbligatori testi di studio mentre nel resto dell’anno era più vuota di un
cimitero di notte. Stando così le cose, il libraio si era affidato totalmente al ragazzo lasciandogli in gestione il negozio e facendosi vivo solo la sera per ritirare il magro incasso, dedicandosi anima e corpo al suo secondo lavoro di videomaker di filmati porno amatoriali. Carmine trascorreva le sue giornate leggendo dietro il bancone, non aveva che l’imbarazzo della scelta. Ogni tanto entravano dei curiosi che guardavano svogliatamente le prime di copertina, soprattutto nelle giornate di pioggia. Batteva qualche scontrino per la vendita di una biro, un portachiavi, un adesivo o un pupazzetto di peluche. Talvolta un libro in edizione economica o formato tascabile. Non si registravano mai furti, a differenza del locale camposanto preso occasionalmente di mira da ladri di rame. Qualcuno chiedeva di usare il bagno o indicazioni stradali. Ambulanti di passaggio tentavano la vendita di calzini o fazzolettini di carta. C’era chi sbagliava l’entrata del tabaccaio accanto e ordinava un pacchetto di sigarette. O c’era chi voleva affiggere un depliant in vetrina. Venivano anche amici e conoscenti del proprietario, nullafacenti avvezzi a trascorrere gran parte dell’orario di apertura a chiacchierare del più e del meno. Delusi dall’assenza del titolare e dal silenzio del commesso, cambiavano subito aria e negozio. Era troppo affollato, pensava Carmine, infastidito dalle continue interruzioni. Quindi aveva deciso di piazzarsi all’entrata come gran parte dei negozianti sul corso – eccetto i gestori di lottomatica, scommesse sportive e videolotterie – per intercettare i disturbatori inopportuni, chiarendo da subito la propria posizione. Dall’altro lato della libreria, oltre il succitato tabacchi, c’era un negozio di una nota catena internazionale di intimo sul cui uscio più di una volta aveva incrociato lo sguardo della commessa, una ragazza carina e attraente, di qualche anno più grande di lui. Carmine, timido e impacciato com’era, faceva fatica a guardarla negli occhi ma non disdegnava un’occhiata furtiva alle gambe ben tornite sui tacchi vertiginosi e al seno, non molto grande ma ben evidenziato dalle scollature aderenti. Si era presentata come Lucia.

 La moglie di Pietro Taùto, di nome Anna, aveva la stessa età del marito, quarantasette anni mal portati. Nevrotica, permalosa e scontrosa, sbarcava il lunario come badante in nero di anziani a cui prestava un servizio occasionale, accudendoli nel normale svolgimento delle attività a loro precluse per sopraggiunta invalidità o età avanzata. Li assisteva preparando i pasti giornalieri, somministrando i medicinali prescritti a orari prestabiliti, facendo loro il bagno e chiacchierando, se ancora lucidi o udenti. Purtroppo il suo intervento era richiesto sempre troppo tardi per via delle precarie condizioni economiche che lambivano l’indigenza, vedovi o vedove che fruivano di pensioni minime o sociali, sebbene il suo compenso orario fosse decisamente contenuto. Pertanto si era costruita nel quartiere la fama di affossatrice di vecchi con la conseguente nomea di iettatrice. Considerando gli scarsi introiti mensili, era costretta a un secondo lavoro – sempre in nero – in qualità di pulitrice di scale condominiali dal momento che nessuno la lasciava entrare in casa come donna delle pulizie sebbene si fosse proposta più volte, raccogliendo, però, le più disparate scuse. La famiglia Taùto annoverava, come già detto, due figli. Il primo, Alfonso, diciassette anni, frequentava con profitto la quarta liceo scientifico, era studioso e diligente, non aveva vizi o grilli per la testa. Determinato a laurearsi in fisica nucleare, aiutava in casa la madre sempre oberata di faccende e d’estate dava ripetizioni di matematica a studenti meno dotati di lui, riuscendo a mettere da parte un gruzzoletto utile per i suoi futuri anni universitari (gruzzolo da nascondere alla vista e alla fame di soldi facili del padre). Il secondo, Mario, quindici anni, era il ritratto sputato di Pietro Taùto. Indolente e superficiale, non s’impegnava in niente – tantomeno a scuola dove stava ripetendo il primo anno di un istituto tecnico – che non fossero i suoi vizi da perdigiorno. Fumava sigarette e canne, beveva birre, vino e superalcolici, giocava d’azzardo e scommetteva su tutto lo scommettibile. Era destinato a oscurare la fama di suo padre, orgoglioso di entrambi i figli, ma con un occhio di riguardo per il secondo in cui si riconosceva alla perfezione. Infatti, per fare lo spiritoso, soleva ripetere che il sangue non era acqua ma liquore certamente sì. E su questa perla di saggezza concordava anche Mario, disgraziatamente.

 Piglio era passato, alla fine del suo viaggio tribolato, dal canile-lager del suo paese a un altro canile-prigione del nuovo luogo di primissima accoglienza. Identificato come bastardo e marchiato come indesiderato, era stato assegnato in uno spazio riservato ai senza razza. Un ampio cortile circondato da alte cancellate di ferro con un dormitorio comune al centro privo di infissi o vetri. Sorvegliato all’esterno da gente in divisa, all’interno operavano volontari che si prodigavano per rendere la vita degli ospiti meno peggio di quel che era. Cibo e acqua razionati ma integrati dalle donazioni della popolazione residente, di buon cuore e cervello fino in confronto agli ideatori, realizzatori e propugnatori di tali atrocità. Cure mediche essenziali alla pura sopravvivenza, se si giungeva in discrete condizioni di salute, altrimenti la fine era sempre in agguato senza altrui patemi. Superato indenne il mare salato, la terra si rivelava più amara. E sottoterra, in una fossa comune dietro la chiesa, si finiva nel silenzio più assoluto accompagnati
dalla luce di una luna nera. Carcasse su carcasse ammucchiate tra sabbia e argilla con una misera croce sopra. Una morte bestiale, spoglia di benedizione umana. Ma Piglio era di tempra dura e armato di una feroce voglia di vivere, il cui sguardo sbriciolava le inferriate piantate nel cemento. Era provvisto di una gioia naturale, assente nel mondo degli uomini civili, presunti padroni della terraferma segnata da confini labili e insignificanti allo scorrere della Storia, al passaggio continuo della Vita e al soggiorno temporaneo di Corpi in prestito. Era dotato di fede fuori dal Tempo, in sintonia con le forze misteriose e arcane che lo avevano generato senza un proposito evidente. E stava pagando la sua ingiusta pena, assenti afflizione e rabbia, con il fuoco sacro della fiducia acceso finanche nelle notti di vento e pioggia. Era un predestinato alla salvezza eterna, sconosciuta agli uomini di cattiva volontà. 


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