Blog a cura di Francesco Strazza

10. Previdenza sociale

L’avvocato Alfonso De Benedictis sapeva, una volta eletto sindaco, di dover obbedire a direttive e comandi provenienti da sfere occulte – sempre le stesse mani sulla città, come un vecchio film già visto. Pertanto la sua autonomia di pensiero e movimento era limitata e circoscritta nell’ambito di passi già tracciati, di delibere approvate e di investimenti economici calcolati ex ante. La sua bella faccia e il suo buon nome avrebbero risposto ex post all’opinione pubblica dell’eventuale fallimento delle operazioni sottobanco. Sarebbe stato ricompensato adeguatamente per il disturbo, una volta raggiunti gli obiettivi prefissati, così che avrebbe potuto devolvere in beneficenza lo stipendio, rimarcando il proprio impegno disinteressato per la collettività. La sua presentabilità nell’agone politico cittadino avrebbe dovuto esercitare un richiamo di massa per tutte le fasce di popolazione. Il suo cavallo di battaglia sarebbe stato il logo della gloriosa squadra cittadina sull’orlo di un continuo fallimento, il cui teatro di esibizione era l’ormai fatiscente stadio comunale, ammantato di vetuste imprese memorabili, privo nel presente di servizi efficienti e di fruibilità per il pubblico. Innanzitutto, si sarebbe concentrato sulla sua parte di competenza, l’ammodernamento dell’impianto sportivo che necessitava di un restyling generale riguardo gli spalti, la tribuna stampa e quella delle autorità, la copertura delle gradinate, il montaggio dei seggiolini di plastica, il rifacimento dell’illuminazione e degli spogliatoi, il terreno di gioco, la sistemazione del parcheggio antistante. In alternativa l’abbattimento con ricostruzione della struttura, presentando un plastico di stucco e cartapesta che tanto faceva presa sull’opinione pubblica. Poi si sarebbe speso alla ricerca di una cordata di imprenditori nazionali o internazionali (nordamericani o asiatici, come dettava la moda del momento) interessati all’acquisto della società, contando sul bacino di utenza e sulla passione viscerale per i colori della squadra. Nessuna delle due operazioni era semplice e fattibile in tempi brevi. Alla sua arte oratoria sarebbe bastato il tempo della campagna elettorale per ingraziarsi il popolo, disincantato dalle promesse trite e ritrite sulla creazione di posti di lavoro, sul miglioramento della qualità della vita, sul taglio delle tasse, sul diritto alla salute e all’istruzione pubbliche ma sensibilissimo al rilancio e competitività della squadra del cuore e alla costruzione di un nuovo tempio sportivo moderno. Ci sarebbe stata soltanto da vincere la resistenza dell’ultimo baluardo presente a Nguaiata, la Curva Sud, l’agguerrito gruppo di tifosi che rappresentava nel suo nome squadra e città, operante sulle gradinate negli stadi, nella realtà sociale degradata e sui network. Capace di intessere negli anni rapporti di gemellaggio con tifoserie di altre città nazionali ed estere, attivandosi nell’interesse di tutta la comunità sportiva, esponendosi in primo piano senza incitare alla violenza o causare incidenti. Un’eccezione nel contesto cittadino, propenso all’individualismo e al tornaconto personale. Una brutta gatta da pelare. Forse sarebbe stato opportuno per l’avvocato De Benedictis, alla prossima partita casalinga, calarsi direttamente in curva nella loro fossa, con il collo avvolto in una sciarpa.

 Finito l’esiguo budget quotidiano da consumare al bar, terminata la lettura dei giornali, sempre più corti di pagine, svuotati fino all’ultimo colon e vescica nonostante la gran quantità di acqua gratuita deglutita a bella posta, la giornata lavorativa cominciava a farsi davvero dura per Mimmo Perullo, soprattutto quando le ore quattordici distavano anni luce anche da mezzogiorno. La colpa era dei giornali sportivi nazionali che scrivevano ogni giorno gli stessi articoli di calcio, divenuto ormai un reality show di vip più che uno sport di atleti, e delle testate di cronaca locale che abbondavano in banalità. La verità, secondo lui, era che a Nguaiata non succedeva nulla, un cazzo di niente. Un omicidio efferato, un attentato terrorista, un rapimento eccellente, uno stupro di gruppo, la rapina del secolo. Macché! Quest’umanità era indolente, svogliata e sonnacchiosa. Se non ci fossero state le forze della natura in prima pagina, nessuno sarebbe venuto a conoscenza della sua esistenza. Come avrebbe portato a termine la giornata se non c’era niente da fare? lavorando, forse? ma chi era lui, lo scemo del villaggio? Maledetti colleghi della portineria! Tutti a usare le stesse strategie giornaliere da decenni, da una vita intera, tanto che, al punto in cui si erano spinti, perfino l’educato scambio di chiacchiere era considerato un ipocrita stratagemma e il ricorrervi per disperazione roba da femminucce arrendevoli, così com’era superfluo e fastidioso salutarsi tutte le mattine. Tra di loro, nella stretta guardiola dalle sedie ammassate l’una sull’altra, si comunicava a gesti carichi d’insofferenza: semirotazione della testa a destra e sinistra con lieve oscillazione verso l’alto e il basso, a esprimere diniego e dissenso; occhio truce e labbra serrate, a manifestare ostilità e malanimo. Nei rari momenti di espansività si ricorreva all’uso degli avambracci, nel gesto dell’ombrello perlopiù, quando si era incitati a rispondere a un utente di là dal vetro o alle dita di una mano unite a cono e dondolanti, a intendere cosa mai si volesse dall’interpellato. In completa assenza di scurrilità triviale. Ma qualora fosse indispensabile emettere suoni fonetici era di prassi ricorrere al rutto breve o alla scorreggia inodore, in luogo di sì o di no. I primi tempi erano stati abbastanza difficoltosi per i neoassunti ma, una volta raggiunta la quota d’infornata clientelare prestabilita, nei successivi cinque anni i rapporti interpersonali si erano stabilizzati senza sussulti e incomprensioni. Nella pacifica e rassegnata attesa delle quattordici, cartellino alla mano.

 Lucia Speranza si era destata di soprassalto. La marcia nuziale di Wagner era ripartita assordante nell’abitacolo senz’aria. C’era voluto qualche istante per inquadrare la situazione. La fila delle auto era avanzata di qualche metro ma l’autista dietro di lei non aveva suonato più il clacson, evidentemente addormentato. Volontari con la pettorina della Protezione Civile distribuivano bottigliette d’acqua, caffè e panini, coperte e cuscini. Venditori abusivi di fazzolettini di carta e accendini si aggiravano tra le auto ferme in compagnia di contrabbandieri di sigarette e pulitori di parabrezza con secchi d’acqua e spugnette, gesticolando sottovoce invece di sbraitare, anzi anteponendo alle loro richieste i vocaboli: posso, prego, scusi, permetta. I semafori lampeggiavano proiettando una luce gialla sinistra sulle vetrine dei negozi e nelle pozze d’acqua sui marciapiedi. La città era fasciata in un silenzio anomalo e sconosciuto, inabitato finanche dagli habitué della movida ubriachi. Ci fosse stata una pattuglia dei vigili urbani a sbrogliare l’ingorgo, il quadro surreale sarebbe stato completato. Sul display dello smartphone c’era scritto: Tesoro. Era Salvatore redivivo. Lucia aveva risposto con una calma impensata, lo aveva subissato di Amore, Cucciolo, Vita mia, Piccino, Caro e chiesto gentilmente di raggiungerla a piedi sul posto poiché non si sentiva tranquilla con l’incasso del negozio nella borsetta. Dall’altro capo lui le aveva risposto di essere stanco, che aveva appena cenato col padre e stavano guardando la semifinale di Champions League tra Barcellona e Manchester City. Lei s’era inalberata come una pantera massacrandolo con epiteti irriferibili sulla pagina e a voce, il più sentito e sincero tra i quali era stato: cornuto! sebbene ognuno singolarmente facesse parte di un eloquio meccanico tramandato da generazioni, privo di un significato esclusivo nella parlata dialettale, una vulgata che non necessariamente si prestava ad accostamenti veritieri e appropriati, come a creare un distacco tra l’espressione e il suo contenuto. L’unica corrispondenza con l’enunciato era il sentimento di rabbia profonda e impotente che avrebbe covato a lungo fino alla tremenda vendetta. Al momento, sospinta da un impulso incontrollabile ma lucido, gli avrebbe voluto chiedere mezza luna o un quarto, anche uno spicchio (sebbene sarebbe bastato molto meno per ottenere un nuovo rifiuto, sotto forma di scusa), cosicché si sarebbe finalmente sentita autorizzata a dargliela al cliente spasimante su un vassoio d’argento, contravvenendo ai suoi sacri principi e doveri morali postati su Facebook e Whatsapp. Attaccato furiosamente, aveva ricominciato a suonare il clacson tra le proteste veementi e gli ululati di disapprovazione degli automobilisti in fila che, con modi forbiti, si appellavano al suo senso civico e all’osservanza delle regole del buon vivere in comunità. Frattanto, tra le nuvole diradate, aveva fatto capolino la luna, senza nulla chiedere.

 Quando era in giro per la città, nei momenti in cui si sentiva assalito, come di consueto, da un’angoscia inspiegabile o da un terrore immotivato, Carmine Abbascio, a secco di pillole, rivolgeva l’attenzione alla lettura dei manifesti funebri che tappezzavano Nguaiata ovunque, dagli spazi appositi a ogni pezzo di muro libero. Sembrava che ci fossero più morti che vivi, vista l’ingente quantità di affissioni. Peraltro, non solo di deceduti dell’ultima ora ma anche in occasione della ricorrenza di trigesimi e anniversari. E lo stesso evento luttuoso era annunciato non soltanto dai familiari, dai parenti, dai colleghi e dagli amici del morto, dagli eventuali circoli o associazioni di appartenenza ma pure dai colleghi e dagli amici dei parenti, sicché il trapassato sembrava morto più e più volte. Usi e costumi locali, certamente, che con l’andazzo nazionale avevano in comune la scomparsa della parola morte. Infatti non era mai scritto: è morto! è deceduto! ma ci si affidava, anche nella terra di chi aveva questo culto profondo, alle formule di rito: non è più, è mancato, è tornato alla casa del Padre, ci ha lasciati, si è spento e così via, esorcizzando, su un manifesto funebre! l’impronunciabile e terribile parola. Carmine non certo godeva della lettura di queste dipartite, non si augurava mors tua vita mea né ricacciava tra quelle parole definitive la sua angoscia di morte. Cercava un sollievo dall’insensatezza e casualità della vita, dalla pesantezza della carne pur giovane, dalle complicazioni umane nella semplicità della natura, dal tumulto delle emozioni rimosse, dalla cerebralità dei comportamenti stereotipati, dalla confusione dei giorni sempre uguali al meno peggio, dalle paure fuori controllo, dalla violenza indotta dal potere smisurato, dalla follia degli dei in terra. E tra quelle parole taciute, scritte dai sopravvissuti a tempo, trapelava il lugubre senso della vita quotidiana seppellita più a fondo di una tomba, una vita cadaverica riesumata continuamente senza puzza né odore alcuno, asettica e mummificata. Un delirio che non avrebbe mai riposato in pace. Dopo la lettura affannata, in cerca di una salvezza temporanea, a Carmine Abbascio non restava altro che sprofondare nel proprio io misterioso con la disillusa speranza che fosse riemerso, una volta per sempre, alla luce piena e chiara del giorno, riconoscendosi a vicenda, una volta per tutte.

 Pietro Taùto, dopo l’inseguimento e la cattura nell’ufficio, aveva sorseggiato il caffè corretto con anice al bar interno dell’Inps in compagnia della guardia giurata – Salvatore – alla quale aveva eccezionalmente offerto anche una sigaretta mentre confabulavano confidenzialmente come vecchi amici. Il bar era affollato tanto quanto la sala d’attesa all’ingresso. Tutti erano assuefatti a questo ordinamento, non c’era da scandalizzarsi o indignarsi. Non si poteva mica pretendere che ci fosse la savana nell’Artide. Come impedire di fumare dove vigeva il divieto. O ignorare di proposito di fare la fila e mettersi in coda aspettando il proprio turno. Oppure cercare il conoscente ai piani superiori, fosse stato al suo posto di lavoro. Pietro sapeva di essere nel giusto, aveva sollecitato il suo fascicolo giacente con modalità comuni all’intero Paese. Seppure non leggesse libri o giornali (eccetto quelli sportivi) seguiva la sua natura che riusciva spesso a collegarsi anche con le dinamiche cosmiche, per puro istinto animale. Aveva tenuto la mano appoggiata sulla spalla di quel ragazzotto in divisa scura con la pistola in fondina che addirittura si prendeva sul serio nell’adempimento del lavoro retribuito a tempo indeterminato. Gli aveva detto di conoscere suo padre Mimmo, un brav’uomo, serio e riservato, frequentatore dello stesso bar. Non gli aveva insegnato niente, non aveva imparato qualcosa dall’esperienza paterna? Gli aveva fatto gli auguri per il suo imminente matrimonio e i complimenti per la futura moglie, una brava ragazza seria e lavoratrice, che aveva intravisto più volte fuori dal negozio sul corso. Ben sicuro che non avesse capito l’avvenimento nella stanza, lo esortava a tenere a freno l’intemperanza giovanile, soprattutto maneggiando una pistola di grosso calibro, che era stato fortunato a trovare uno come lui con tutti i brutti ceffi e malintenzionati in giro, che non avrebbe menzionato con i suoi superiori l’accadimento che avrebbe potuto evolversi spiacevolmente, che non lo avrebbe denunciato per minacce e danni, così come i due impiegati avrebbero chiuso un occhio sull’incidente che avrebbe potuto avere un seguito increscioso. Finito il sermoncino, mentre sorseggiava un doppio Campari con gin, Pietro Taùto stava riferendo a Salvatore, con affettata delicatezza, di vantare un credito di cento euro nei confronti del padre, un normale debito di gioco alle carte nel bar che non aveva ancora sollecitato sapendo delle ingenti spese che comportava il matrimonio di un figlio. E se si era permesso di confidargli questo segreto tra uomini, era stato soltanto perché aveva visto di persona che pezzo d’uomo adulto fosse il figlio del suo amico, una scorza dura, con un lavoro sicuro e appagante mentre lui, Pietro, era invece un padre coscienzioso di due minorenni a suo carico, bisognosi di cure morali e attenzioni pratiche. Si raccomandava di non far cenno alcuno col padre Mimmo del segreto rivelato per non mortificarlo, e mentre infilava nel portafogli le due banconote da cinquanta euro aveva stretto con calore e tacita intesa la mano della gagliarda guardia giurata. Una volta uscito in strada, accesa una sigaretta e sputato a terra, si era avviato di fretta alla macchina, intanto che Salvatore saldava il conto al bar dei caffè e del Campari doppio con gli ultimi spiccioli in tasca.

 Piglio passava buona parte della giornata a sonnecchiare sul suo giaciglio raffazzonato. Qualche condomino proprietario di cane gli destinava una coperta usata o una gommapiuma ogniqualvolta ne acquistava una nuova, anziché gettarla via, così il suo corredo era alquanto decente. E se qualche anima buona non si fosse decisa a tirargli via quelle più vecchie, il povero Piglio rischiava di rimanere schiacciato sotto il balcone che lo riparava, tanto alta quanto un catafalco diventava la sua cuccia a furia di aggiunte. Era felice di tutte quelle attenzioni e scodinzolava di gioia al passaggio dell’umanità che provvedeva anche a lui, oltre la propria famiglia. Era dispiaciuto verso chi lo ignorava e indulgente nei confronti di coloro che non ne sopportavano la presenza. Eppure Piglio fungeva anche da cane da guardia lì sul portone. Con gli anni aveva memorizzato tutti i residenti e ricordava pure i parenti e gli amici, riconosceva d’istinto chi si avvicinava per lavoro, non solo postini o corrieri, ma venditori porta a porta e distributori di volantini. Aveva, però, il fiuto di annusare i malintenzionati senza lasciarsi ingannare da una lingua sconosciuta o dalla pelle diversa. Diffidava della freddezza del cuore, si allertava davanti all’artificiosità dei gesti, drizzava il pelo di fronte alla cattiveria, ringhiava alle minacce lampanti, abbaiava alle manovre oscure, schizzava fiotti di urina sull’ipocrisia e sull’ignoranza. Più che la mascotte del caseggiato era il vice portiere e se il titolare si assentava ne faceva le veci. Gli mancava, oltre la parola, la scrittura, per poter ritirare pacchi e corrispondenza, ben pronto a farlo se necessario.

 


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