Sono sul viale principale. Di fronte a me, lì in fondo, intravedo il cancello di ferro dell’ingresso sotto un’arcata. Alla mia destra, oltre il muro di cinta, c’è uno stabilimento industriale. E poi le ciminiere della centrale elettrica che si stagliano alte nei loro colori circolari bianco e rosso nel cielo azzurro.
Luglio afoso, primo pomeriggio, è domenica. Alla mia sinistra niente di visibile oltre le mura intonacate di giallo ocra. Non c’è nessuno in giro. Alle mie spalle un’altra arcata ci separa dalla parte più nuova del nostro camposanto. Lungo il perimetro delle mura ci sono tanti loculi allineati e compatti.
Io sono proprio a metà di questo viale senza alberi e con questo sole a picco salgono ondate di calore che emanano figure ondeggianti come spiriti. Sono libera da un po’ di tempo ma non chiedetemi da quanto perché ne ho tanto a disposizione che un secolo era ieri e l’eternità domani. D’altronde non faccio altro che sfornare mummie e ossa a ripetizione, via uno dentro l’altro. Nella mia funzione di tomba comunale accolgo indigenti cui l’amministrazione concede il funerale gratuito. Quindi assorbo legno di pessima qualità nel minor tempo possibile, per poi passare al contenuto che spolpo in men che non si dica alla bell’e meglio.
Ultimamente mi duole lo stomaco per la cattiva qualità delle bare che devo digerire, come i corpi ivi inseriti che sono composti da sostanze cattive di un’intera vita. Ho un’ulcera gastrica ed è sopravvenuto un reflusso esofageo: li vomito i resti, l’opera del becchino non è necessaria. Dopodiché mi ripulisco e mi arieggio rivoltata a pancia all’aria, mi lavo sotto la pioggia nell’attesa di un nuovo disgraziato cui offro disinteressatamente un’umida coltre di terra sacrosanta. Se me ne danno il tempo fra un’inumazione e l’altra, allevio i dolori con sciroppi antiemetici. Come sto facendo adesso ma avrei bisogno di un periodo di ricovero e di un’operazione che asporti le mie parti malsane e intossicate.
Intanto cosa sta succedendo? Non crepano più i nullatenenti? Il comune ha esaurito i fondi? Io lo vedo bene, il mio, tutto asciutto e secco, neppure un verme a pagarlo, sono piena di piaghe e crepe: io stessa sembro un cadavere!
Intorno a me giacciono grandi signore, io sono l’unica proletaria di questo campo antico e nobile. Lapidi marmoree maestose, bianche e accecanti come neve, in quantità tale che sembra di essere sulle cave nelle Apuane. Fosse foderate di cemento e rivestite di ceramica in cui adagiano casse di legno pregiato che si prendono tutto il tempo dell’universo per marcire in pace e con discrezione. Fiori di ogni tipo a gran mazzi: crisantemi, garofani, rose, tulipani, margherite, viole, manco fossimo sulla riviera ligure a svernare. E croci e statue e angeli e cristi e madonne, che sembra il laboratorio di Michelangelo Buonarroti. Non parliamo poi delle lucine, dei ceri e delle candele, delle lampade e lampadine, delle fiamme e fiammelle, che non se ne vedono tante nemmeno ai concerti di Baglioni. Penserete che io sia invidiosa, con la mia croce di legno semplice, senza intarsi o foto, una fossa scandalosamente spoglia. Macché! Io sono frugale, francescana, povera fuori ma ricca di sostanze naturali inumate dentro. Chi si lascia avvolgere da me ritorna alla cenere di partenza in un batter d’occhi. Io prendo il mio ospite in carico e lo libero dal suo cappotto di legno restituendolo alla terra cui è appartenuto. Assolvo prosaicamente al mio compito di consunzione e trasformazione delle spoglie. Rappresento la reincarnazione terrena vera e propria, per le altre cerimonie non sono tagliata, quelle le lascio agli officianti patentati. Io agisco, non celebro.
Poi guardo i loculi alla mia sinistra sotto i porticati: cosa credono di essere? Decenni su decenni chiusi in sé stessi, come ostriche sigillate senza perla. Adagiati nel cemento l’uno sull’altro, protetti dalle intemperie e dal sole, sollevati dalla terra come pire senza fiamme, addobbate di fiori, luci e scritte come le cabine dei tir lanciati nella notte, abbandonati senza pietà negli anni del sonno immortale, custodiscono il loro frutto irrancidito come tanti freezer fulminati. Ostentano con sacralità la loro chincaglieria arrugginita di segni e simboli esteriori, ignorando volutamente ciò che hanno in corpo, ormai appiccicato alle loro pareti. Tutti in fila, uno simile all’altro, ammassati come pecore nell’ovile, ben attenti a proteggersi da un refolo di vento che possa spegnere la loro fiamma fasulla, sfavillante come un semaforo lampeggiante.
Il mio ultimo inquilino è stato un senzatetto che ho avuto in grembo per qualche anno. Non conosco la sua storia fino in fondo, così come ho conosciuto il suo cadavere per il quale sono stato la casa che non ha mai avuto nel suo viaggio terreno. E seppur l’avesse avuta, non era stata dissimile dal riparo concessogli da me nell’ultima apparizione intera del suo corpo. Ho ben presto fracassato la fragile cassa e l’ho avuto direttamente fra le mie braccia. L’ho cullato, lisciato, spolpato e tritato fin dentro l’anima che lo attendeva pazientemente nella sua vera casa e quando ho sciolto l’ultimo anello della catena, s’è librato nello stato di ectoplasma al completo ricongiungimento.
È quest’aspetto che m’inquieta nel camposanto: tutta questa presenza di ombre, spettri, spiriti, fantasmi, chiamateli come volete, ma io non mi sono mai abituata a loro. È che uno è preparato a vedere i vivi in verticale e a conservare i morti in orizzontale, ma queste figure sospese tra cielo e terra mi sgomentano. Tutto un brulichio intorno e a tutte le ore. Si crede erroneamente che la notte sia il loro regno e ciò contribuisce al terrore dei cimiteri che ispirano col buio.
Io lavoro con i defunti: qui ce n’è, ce n’è stata e ce ne sarà sempre una distesa. Ho fatto il callo alle visite dei vivi, dei parenti e conoscenti, dei colloqui recitati a copione, di queste preghiere monotone e languide, piagnistei ululati a memoria. Sono assuefatta alla decomposizione delle salme, al loro lezzo e ai fuochi fatui. Ma non riesco ad abituarmi a queste figure, mi spaventano proprio.
Hanno tutti una fretta! Abbiate pazienza, santo dio, che vi aspetta l’eternità per i ricongiungimenti, che bisogno avete di sostare in prossimità del feretro? Tanto alla fine si dissolverà e con esso il vostro legame mondano, quindi sarete completamente liberi di proseguire il viaggio. È come smarrire un oggetto, un bagaglio in stazione: si rischia di perdere il treno alla sua ricerca. D’altronde non vi servirà più dove siete già o dove andrete, che bisogno c’è di aggirarsi ancora nel passato? A costo di rimanere disoccupata, preferisco il forno crematorio che si trova alle mie spalle, al di là dell’arcata del portico nuovo. Vanno via assieme, corpo e anima, e la cenere dispersa. E se anche fosse tenuta qui tumulata, pure gli spettri tengono alla forma, di conseguenza non si fanno vivi: essere ridotti in poltiglia polverosa d’emblée non piace a nessuno, nemmeno all’araba fenice. Basta che ci sia un corpo, il proprio, continuano a gironzolare nei paraggi, fossero passati anche cent’anni, il legame con quello che si è stati non si spezza facilmente.
E meno male che questo è un camposanto cattolico cristiano. Se fosse stato induista o buddista con le loro rinascite e reincarnazioni, qui ci sarebbero stati un traffico e una folla che avrebbero fatto impallidire il festival di Woodstock.
Ricordo il mio primo funerale, la prima inumazione davvero non si scorda mai. Era un vecchietto molto avanti negli anni, io avevo appena visto la luce e, a inumazione avvenuta, ho subito toccato il fondo. Ogni palata di terra mi provocava il solletico, qualche starnuto e, una volta completata il mucchio, mi sono sentita soffocare con un peso sullo stomaco. Ho lanciato un ahi! con la croce piantata in testa e le prime notti mi sentivo come una partoriente con la bara in gestazione. Una sensazione strana: accudire la morte con istinto materno. Per mesi e mesi ho tenuto sotto stretto controllo questo involucro che si agitava al mio interno emettendo versi gassosi. Nella cassa auscultavo l’avanzata della decomposizione che mi condusse alle prime contrazioni annuncianti il travaglio. Quindi seguì la rottura delle assi e il rilascio del feto mummificato nella mia terra madre che lo accolse tra le braccia. Era così esile e indifeso, un corpicino magro e leggero di un vecchio bambino cui asciugai i liquidi residui e lo fasciai nel mio humus. Bastarono pochi anni allo svezzamento che lo trasformò in un bellissimo scheletro dalle ossa grigie e lisce che venne alla luce grazie a un parto cesareo effettuato dal nostro becchino. Il mio primo figlio che separatosi da me prese la sua strada senza ritorno. Ci si lamenta tutta la vita di ogni bazzecola, ma quando finisce e sopraggiunge la morte, ci si accorge finalmente di quello che si perde per sempre.
C’è un corteo funebre. Tanta gente ben vestita, cassa di gran pregio, carro funebre regale, corone e cuscini di fiori a bizzeffe. È una tomba di famiglia, un loculo di terra con un paio di angeli scolpiti alla sommità e quattro lanterne agli angoli, una lapide monumentale con fiammanti incisioni. Ancora non so chi è il nuovo ospite e fino a quando non raggiungerà il mio livello non potrò saperlo, è tutto sigillato nella cassa di zinco e sarà ancora ben disorientato. Al di là del folto capannello dei congiunti, tante ombre seguono attenti la funzione. Ognuno di loro ricorda ogni volta il proprio arrivo nell’ultima dimora e dei lucciconi esalano dagli occhi, ci si emoziona come alla vista dei matrimoni quando i curiosi si soffermano davanti all’ingresso della chiesa.
Il corteo si disperde verso l’uscita mentre gruppi di ombre si avvicinano alla dimora del nuovo arrivato già occupata da altri ospiti: è un interminabile ritrovarsi e questa è solo la prima stazione. Qualcuno dei parenti del nuovo venuto allunga uno sguardo atterrito alla mia buca scoperta con la terra ammucchiata ai bordi. Eh già, senza lapidi e gingilli la mia vista è un pugno in faccia, una botta allo stomaco e una grattata di coglioni. Comunque, signori, io non sono per niente fuori posto qui dentro, e solo quell’effimero passaggio nei muri di cinta vi separa da me e dalla mia tremenda visione.
Si avvicina un furgone nero. Il suo rumore mi ha svegliata, sotto il caldo di questa giornata estiva mi sono appisolata e non mi sono accorta della presenza del becchino alle mie spalle. Si ferma alla mia altezza, scendono in tre, fanno scorrere il portellone e cominciano a tirar fuori una cassa da morto color compensato. Ci siamo, è il mio turno di nuovo, i poveracci hanno ricominciato a crepare. Dispongono le assi su di me, appoggiano la bara con le corde e inizia la discesa verso il basso. Mi apro più che posso ma sono più asciutta della bocca di un assetato, questa penetrazione dopo una lunga pausa evidenzia tutta la secchezza delle mie pareti. Tonf! il fondo è stato ancora una volta raggiunto, siamo venuti alla meta entrambi. Ritirano le corde e prendono il via schizzi di terra a blocchi dentro di me. Li accolgo con un lungo spasmo doloroso ma voluttuoso, finalmente sazia e inumidita, mentre gli uomini sopra me, con la sigaretta in bocca, si appoggiano alle pale esausti per lo sforzo, imprecando ad alta voce per il caldo e il sudore. Questo disgraziato lascia il mondo accompagnato dalle bestemmie dei necrofori comunali: amen! Ecco fatto, si allontanano in silenzio, mi distendo soddisfatta, le ultime gocce di terra scivolano su di me e mi assopisco beatamente sotto il sole a picco lassù in alto.
Questo campo era il nucleo originario del cimitero e io già c’ero. Queste smorfiose che mi circondano così altezzose, quando io sono venuta al mondo erano inesistenti in larga parte o vivevano come me nella semplicità e dello stretto necessario. Le più antiche sono di nobile estrazione e tuttora le loro discendenti presenti in loco si distinguono per la classe e la signorilità, lo stile e le maniere. Tante altre, al contrario, proliferate nel tempo, sono delle parvenues di cui risalta la rozzezza e la volgarità e la cui fortuna rimane di origine misteriosa, come l’aldilà che rappresentiamo in terra. Si danno certe arie senza accorgersi delle flatulenze pestifere che emanano. Si dotano di ceri e candele per assumere atteggiamenti artatamente retrò senza riuscire neanche a tenere in vita una fiammella. Sono spente dentro anche con le lampade elettriche esterne. Cerco di non curarmi troppo di loro ma come si fa quando sei spigolo a spigolo, ammucchiate l’una vicina all’altra? Quando arrivano le visite al loro capezzale mi tocca assistere a delle scene dell’altro mondo. Tutte impettite, si gonfiano manco fossero il monumento al milite ignoto, tirate a lucido nel loro grigio smorto. Sorridono con i loro dentoni gialli e cariati inconsapevoli del ribrezzo che suscitano, roba da far accapponare la pelle dallo spavento. E quando recitano la scena delle abbandonate con tutte quelle lacrime false, delle bisognose di cure con i loro fiori rinsecchiti e le foto impolverate, provo una rabbia tale che gli fracasserei tutte le ossa.
E la gente che arriva da loro, te la raccomando. Portano tanti di quei mazzi di fiori e piantine come se dovessero metter su un vivaio, trasformano le lapidi in serre olandesi, vedo una distesa di fiori come in un dipinto di Van Gogh: si dimenticano della nostra vera natura morta. E mai una volta che ne allunghino uno su di me… ma si vede che la mia nudità le imbarazza e distolgono lo sguardo sdegnato dalla mia indecenza, si sentono fortunate ad avere i mezzi per coltivare il loro orticello.
Oggi c’è un silenzio profondo, davvero un mortorio e questo mi aiuta a concentrarmi su di me, specialmente ora che sono di nuovo occupata. È che la mia ulcera comincia ad aggravarsi, troppe fitte lancinanti, non ce la faccio più ad avere lo stomaco pieno. Durante il digiuno prolungato, mi ero ripresa in salute ed erano scomparsi anche i cattivi pensieri che sono già tornati, riapparsi come i dolori. E se avessi qualcosa di più grave? Un tumore maligno? Il rigonfiamento sulla bocca dello stomaco si vede ma non voglio impressionarmi, anche le altre volte che mi hanno riempita si è in seguito appiattito. Questa sofferenza mi affossa: alla sola idea di un brutto male già mi sento morire.
Porterò a termine questo lavoro e poi deciderò che fare, rinchiudermi in me stessa o cambiare destinazione d’uso, ad esempio accogliere le ceneri dei cremati sarebbe il rimedio a tutti i miei mali. Io ho faticato tutta la vita a mani nude e con le unghie, le vedo sotto sotto le signore al mio fianco con le loro vasche rivestite in pietra per non sporcarsi con la terra. Non hanno mica a che fare con corpi decomposti e carni disfatte che ti infettano anche l’anima, lasciano ogni cosa dentro l’ovulo ingerito a doppia mandata con lo zinco e non hanno nemmeno bisogno di turarsi il naso. Bella la vita!
Al di là delle mura di cinta alte e gravi nel loro compito divisorio, provengono rumori disparati più forti del solito. Sto sentendo tante sirene di tonalità diversa: acuta e perforante dell’ambulanza, sibilante e penetrante dei vigili del fuoco, minacciosa e inquieta della polizia, e si leva alto anche il rumore del traffico lungo l’arteria prospiciente il cimitero. Rumori che usualmente arrivano dentro attutiti e distanti, a sottolineare la differenza momentanea che separa il nostro interno dal loro esterno. Come il lungo fischio che scandisce la fine dei turni nello stabilimento accanto: non vedo le figure né sento le voci ma nell’aria si leva il ritmo della loro attività continua. Oppure il fumo che fuoriesce dalle ciminiere della centrale: l’odore non è acre come quello del nostro forno crematorio, ma il loro grigio nebbioso colora la stessa volta del cielo sopra tutti noi. E noi tutte siamo disposte in lunghe e numerose file l’una accanto all’altra separate dal viale di passaggio, con la faccia rivolta verso l’esterno, come in un cinema spazioso, tutte sedute in silenzio verso un grande schermo chiaro che ci rimanda solo suoni, toni, clamori filtrati dalle mura, dalla distanza che ci separa su questa stessa terra. Come tante vecchie signore allungate sulla poltrona ad ascoltar la radio. Ci deve essere stato un incidente, potrebbero arrivare nuovi ospiti a rimpinguare il parco cadaveri che coltiviamo come periti specialisti. Dentro ognuna di noi, sotto il piano stradale spazzato e ordinato e lungo i porticati perimetrali, in tante bare gomito a gomito, c’è una collezione interminabile di carne ancora fresca, ammuffita, mummificata, imbalsamata, cataloghi di teschi e scheletri, spoglie di assassinati, suicidati, incidentati, stecchiti, crepati, avvizziti, bruciati, appassiti, una gigantesca urna dentro la quale mi ricavo sempre più a fatica e con dolore il mio spazio vitale.
Negli ultimi tempi c’è stato un viavai incessante di gente al cospetto di un loculo sotto il portico. È tumulata la vittima di un fatto di sangue clamoroso che ha avuto vasta eco sui principali mezzi di informazioni locali e nazionali (anche tra noi tombe le voci corrono alla velocità della luce eterna). Pertanto ho visto gruppi di persone che per giorni e giorni hanno visitato il tumulato con macchine fotografiche e fogli di carta scritta, di fiori nemmeno l’ombra. Ho visto così tanta gente che ho creduto fossero gli spiriti del sacrario dei caduti di guerra, improvvisamente rialzatisi: erano vestiti tutti allo stesso modo come fossero in divisa e compivano gli stessi gesti di un reggimento, si adunavano e si scioglievano. Oppure gruppi di adoratori di madonne sui luoghi dell’apparizione. O spettatori del circo dinnanzi alla donna cannone o all’uomo proiettile. Pensare che in questo camposanto ci siano mie simili, d’alto rango, che ospitano spoglie mortali di uomini illustri, quali poeti, pittori, musicisti, relegate nell’assoluto abbandono e con colpevole dimenticanza. Eppure la memoria di loro è dispersa nel vento, lontano dai libri, dalle tele e dagli spartiti ove è racchiusa immortale la loro opera. Queste mandrie di cialtroni omaggiano superficialmente chi ha bisogno di silenzio e raccoglimento ed evitano di commemorare chi lascia un segno per la loro e l’altrui sopravvivenza, la perpetuazione umana: invano. Mi rivolto su me stessa davanti a queste scene squallide, questi scellerati profanatori dei loro stessi territori sacri meriterebbero delle crepe al loro passaggio che li inghiottiscano nel sottosuolo, a incontrare con i loro corpi morti le spoglie vive dei defunti.
Stanno chiudendo i cancelli, il sole sta calando sulle lapidi che tracciano ombre allungate e intrecciate, a formare un’unica grossa grata che ci imprigiona inesorabilmente in questo carcere del fine pena mai, ognuno rinchiuso nella sua cella singola.
Con l’arrivo del buio mi tocca assistere alle scorribande del popolo della notte tra le proteste e i lamenti, oserei dire d’oltretomba, degli spettri diurni che rincasano a giacere. Capannelli si assiepano attorno alle lapidi a mo’ di tavolini di caffè, singole ombre vagano in passeggiate solitarie, altre scavalcano i muri perdendosi nelle luci artificiali di fuori. Odo risate e versi di ogni genere. E ancora canzoni lontane e musiche soffuse, sussurri inquietanti. Lampi accecanti e colori tenui, passi di corsa e battiti di mani, suoni soffocati. Insomma un bailamme, una sarabanda che al confronto il manicomio è un luogo di quiete. Io chiudo gli occhi, non voglio guardare e spero che nessuno mi sfiori altrimenti lo spavento mi farebbe saltar su a diventare un catafalco.
Oggi il tempo è passato lentamente. Qui intorno solito palco e stessi attori dietro le quinte, ancorché il cast cresca di numero ogni giorno: che ci sia il sole o la pioggia, scuri cortei attraversano il cancello verso la destinazione finale. Ne ho visti entrare così tanti alla mia veneranda età che mi chiedo se sia rimasto ancora qualcuno lì fuori. Che la scena principale si svolga all’interno di queste mura e al suo esterno ci siano solo sofferenza e miseria, tristezza e malattia, cattiveria e crudeltà, dolore e morte? Pensieri farneticanti mentre la mia digestione è sepolta da borborigmi incessanti. Se voglio sopravvivere, se non voglio scavarmi la fossa con le mie mani, non devo barare con la mia coscienza: questo sarà l’ultimo carico che consegnerò.
Questo posto mi angoscia. Magari fossi stata su in montagna avvolta da alte cime innevate, slanciate verso il cielo. O su un promontorio marino ad allungare lo sguardo sulla distesa azzurra, infinita nell’orizzonte. Anche in piena città, circondata da palazzi e caseggiati, pullulanti di luci e figure in lontananza. Invece giaccio in questa pianura di nebbie, incorniciata da massicce mura minacciose che oscurano lo stesso cielo. La mia semplice croce di legno mi inchioda e opprime a terra, da ritenere più lieve ogni altra di marmo o di pietra che mi circonda. Mi sento soffocare, l’ansia mi sale dalle viscere e mi toglie l’aria, ho bisogno di cambiare posizione. Sento tutta la mia solitudine, mi pesa la mia diversità in questo panorama. Non rammento le mie origini, ogni ricordo è stato seppellito nella memoria scomparsa e quando riaffiora brucia nella fiamma ardente e si dissolve come cenere al vento. Chi sono io? Da dove vengo? Perché mi trovo qui? Non sono una tomba di famiglia io, al mio crepuscolo seguirà un’estinzione senza alcuna eredità.
È notte fonda. Sento un motore che si avvicina lentamente. Gli occhi si aprono a fatica nel sonno in cui ero precipitata, stretta attorno alla mia cassa di legno, come una bimba nel letto con la sua bambola. Due fari squarciano il buio sopra di me, una ruspa affonda la sua pala meccanica avvolgendomi le spalle e mi issa tenendomi adagiata supina nel suo cucchiaio. Attraversiamo sobbalzando il viale silenzioso fino alla grande buca dell’ossario nella quale mi cala con attenzione. Poi mi ricopre fino a non vedere né sentire più, solo terra intorno, sopra e sotto. È tutto finito, sono scomparsi i miei dolori, e anche la mia solitudine, perfino le paure: dentro la grande fossa comune.

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