Blog a cura di Francesco Strazza

Sono arrivato in anticipo in stazione, manca un’ora alla partenza. C’è caldo, la solita folla in attesa con bagagli al seguito, un crescendo di voci stagnanti sotto l’ampia volta della tettoia, viavai di carrellini strombazzanti, annunci dagli altoparlanti, schermi che rimandano video pubblicitari, brusii dei tabelloni che scorrono.

Tutte le panchine sono occupate, ogni strapuntino che abbia la parvenza di seduta, il bar è completo in ogni ordine di posto. Potrei passare in libreria per occupare il tempo che manca e ripararmi nell’aria condizionata da questa calura che incombe.

Quand’ecco vedo il mio frecciarossa inaspettatamente già sul binario. Il monitor all’inizio della banchina mi conferma orario, numero del treno e destinazione, è proprio il mio. Bene, mi avvio alla carrozza e al posto prenotati, salgo in vettura. Cerco il sedile, lo trovo, sistemo il borsone sul bagagliaio in alto, tiro fuori il giornale e finalmente mi siedo in pace: non mi resta che attendere la partenza.

– Buongiorno a tutti, signori, vi prego di scusarmi ma ascoltatemi, per carità! Non è mia abitudine disturbare ma sono costretto dalla necessità, mi vergogno profondamente ma è una questione della massima gravità!

Una voce nasale e impastata, artefatta, giunge dalle mie spalle. Mi avevano avvisato che in questa stazione ci sono questuanti e venditori abusivi, seccatori che salgono a bordo. Speriamo che non la faccia lunga, che qualcuno gli dia qualcosa, che scenda al più presto. Intanto mi tuffo nel giornale e fingo indifferenza senza neanche voltarmi.

– Non lasciatevi ingannare dal mio aspetto, purtroppo non ho dormito perché ho dovuto passare la notte in stazione, ho perduto l’ultimo treno e mi hanno rubato anche il portafogli con tutti i documenti, o forse mi è caduto ma non l’ho trovato con tutta questa brutta gente in giro, figuriamoci! Sono disoccupato, ho perso il lavoro, mi hanno licenziato, hanno chiuso la fabbrica senza nemmeno darmi la buonuscita, già ero precario, mi chiamavano quando volevano loro e mi dovevo arrangiare, facevo un po’ di questo e un po’ di quello ma mi sono sempre comportato onestamente, non andavo mica a rubare, è vero che sono stato in carcere ma è una storia lunga, che ve la racconto a fare? Non è stata colpa mia, veramente! Ero innocente e ho scontato la pena senza lamentarmi, a casa portavo i soldi solo io, sono pure invalido, come potete vedere, al cento per cento, una lunga storia e che ve la spiego a fare? so io cosa ho passato, sono inabile al lavoro e lo Stato non mi dà la pensione, non esisto ma se mi deve condannare allora mi vede eccome! Mia moglie è ammalata cronica e pure depressa, non posso neanche comprare le medicine per curarla, sta sempre a letto senza forze, poveretta, ho tre figli a carico, il più grande è handicappato, è nato disgraziato, nemmeno Dio ci vede, il più piccolo il giudice lo vuole dare in affidamento, ce lo vuole togliere, avete capito? i servizi sociali a noi nemmeno ci calcolano, non esistiamo per nessuno, ci hanno lasciati soli, nemmeno gli assistenti sociali vengono ad aiutarci e sì che li ho chiamati ma niente! non esistiamo, e questo è il ringraziamento perché mi comporto onestamente come dice la legge? Il mio secondo figlio, una femminuccia, vive con i nonni materni che hanno la pensione minima sociale della previdenza perché la nostra casa è proprio piccola, dormiamo tutti nello stesso letto, non abbiamo la luce elettrica e nemmeno l’acqua corrente, figuriamoci i riscaldamenti, è una catapecchia che abbiamo occupato abusivamente e le guardie ci vogliono sfrattare: e dove andiamo, in mezzo alla strada? ho fatto la domanda alle case popolari ma chi lo sta a sentire un disgraziato come me? Mi hanno detto che devo aspettare il mio turno, che c’è gente che sta peggio di me. Peggio? ma chi sono questi, la tragedia proprio?

Nessuno batte ciglio, nessun rumore alle mie spalle, solo la voce che recita il suo monologo lamentoso, intervallato da cali del tono accentuatamente nasale, brevi pause dettate da lievi sfregamenti facciali, suppongo, poiché non oso voltarmi. Eppure ho visto una decina di passeggeri al loro posto mentre raggiungevo il mio. Che cosa faccio? Tiro fuori una moneta, gliela allungo quando mi passa accanto nel corridoio e via? Mi sembra però di non averne, non gli posso mica dare una banconota. Che faccio, controllo? E se poi mi vede tirar fuori il portafogli? questi hanno mille occhi, che gli dico, guarda che non ho niente? Possibile che nessuno gli dia qualcosa per farlo smettere? Farò finta di niente? Affondo la faccia nel giornale e buonanotte!  Ne sarò capace? Non ce la faccio a sostenere lo sguardo di questa gente. Che situazione! Ma non potevo stare in sala d’aspetto che il posto è prenotato?

– Io sono orfano da piccolo, mio padre non l’ho mai conosciuto, quando sono nato aveva già abbandonato mia madre, non si è mai fatto vedere in tutta la mia vita, un infame senza vergogna, a stento sapevo il suo nome perché io porto quello di mia madre, poveretta! Ha dovuto lavorare come un mulo per mantenere noi figli, cinque ne ha avuti, tutti da uomini diversi che la sfruttavano, la mettevano in mezzo a una strada, povera madre mia che è morta ancora giovane all’ospedale dei poveri senza nessuno vicino, come un cane! e noi figli soli, in mezzo a una strada o all’orfanotrofio: e che potevamo fare senza famiglia e senza lo Stato che pensasse a noi? Siamo rimasti onesti sempre, non abbiamo ammazzato nessuno, è vero qualche volta abbiamo spacciato o rubato ma mai per delinquenza, solo per necessità, che dovevamo fare, morire? Non abbiamo fatto niente di male a nascere pure noi! Mi vergogno assai, credetemi, venire a disturbarvi, mi appello al vostro buon cuore, signori, voi siete tutti istruiti e dottori, onesti e generosi, voi siete tutti intelligenti e comprensivi, sapete cosa è bene e cosa è male, se non fossi costretto io me ne starei come voi al posto mio a farmi gli affari miei e zitto! ma questa vita carogna si è accanita contro me, la mia famiglia, i miei figli, proprio per loro io sto qua a dirvi i fatti miei col cuore in mano, per loro vi chiedo di mettervi una mano sulla coscienza e se volete anche nella tasca, per mia moglie che si aggrava momento per momento. Vi giuro! se fosse solo per me, non chiederei niente, non sarei qua in giro su un treno a disturbare con i fatti miei tanta bella e brava gente.

Nei pochissimi attimi in cui la voce riprendeva fiato, aspirando l’aria, non avvertivo con i sensi tutti protesi all’ascolto alcun movimento di portafogli estratti da tasche o borse, forse ognuno dei passeggeri stava adottando la mia stessa strategia di ostentata indifferenza, d’insofferenza malcelata che si manifestava sotto forma di fredde gocce di sudore che mi colavano dalla fronte tracciando un solco sulla pelle. Una vera e propria tortura sarebbe stata ben accetta, benvenuta in questo profluvio inarrestabile di parole calate come spilli nella carne, un supplizio interminabile, una via crucis sulle spine. E non compariva oltre l’orizzonte delle pagine del mio giornale leggermente abbassato, come occhi sollevati dalla trincea con circospezione, un capotreno, un controllore, un addetto alla ristorazione, un poliziotto ferroviario che scacciasse l’intruso, che allontanasse con piglio autoritario l’invasore logorroico, lasciandoci soli davanti alle nostre indecisioni e confusioni. O soltanto mie? E se quest’individuo di fronte al rifiuto divenisse pericoloso e rabbioso, chi ci difenderebbe dalla sua esplosione di violenza? Ci sono forze dell’ordine nei paraggi che possano indurlo alla ragione e renderlo inoffensivo? Perché ci hanno lasciati in balia di questo mostro, chi gli ha permesso di comparire indisturbato sulla nostra strada? Queste aggressioni mi trovano impreparato, mi lasciano indifeso: perché è capitato proprio a me affrontare questa prova?

– Grazie, signori, col cuore in mano, quello che potete, ve ne sono grato, non chiedo niente per me, grazie a nome dei miei figli, di mia moglie, dei miei genitori.

Avanza nel corridoio, sento passi strascicati venire avanti nella mia direzione, col sottofondo di questa cantilena, una musichetta automatica, una nenia irritante. D’un colpo la camminata trascinata si arresta, deve essere al mio cospetto, la mia faccia è letteralmente affondata nelle pagine spalancate del giornale, la fronte e il naso macchiati di inchiostro, le dita serrate e sudate accartocciano la carta che mi avvolge come un sudario. Non si sposta, non se ne va, lo sento fermo oltre le pagine. Immobile come una presenza inquietante, secondi infiniti che non mi lasciano scampo, la fuga è impensabile, non posso sottrarmi ancora a questo incontro inesorabile che non pensa affatto a sparire dalla mia vista incartata.

Con uno scatto deciso, deglutendo saliva fermentata, allungo le braccia, allontano i fogli che mi avvolgono dall’inguine ai capelli e spalanco le pupille dilatate dalla sorpresa. Di fronte, in piedi tra i sedili vuoti, mi appare una siringa enorme appoggiata sullo stantuffo, con l’ago che sfiora il tetto della carrozza, l’astuccio graduato con i numeri ben visibili. Getto con stupore lo sguardo all’indietro, poi davanti: il vagone è vuoto, nessun viaggiatore è presente al suo interno. Raggelato nel mio sangue, sudo copiosamente, mi gratto nervosamente il naso e biascicando ascolto fuoriuscire dalla mia bocca secca queste parole lontane: – Ma lei… è una siringa?

– No… sì, signore, ma da insulina, è per mia nonna che è molto malata, ha il diabete, è molto grave, sta male, è in sala d’aspetto allungata su una sedia, ha avuto una crisi, sono uscito a cercare aiuto, la farmacia è chiusa, non c’è il pronto soccorso qua, non ho trovato il medico, povera vecchia rischia la morte se non l’aiuto, è per lei che mi servono i soldi, per comprare le medicine, vive da sola, mio nonno è morto, io sono il suo unico sostegno, se non ci penso io chi lo fa? lo Stato? l’Asl? siamo poveri ma onesti, nessuno ci aiuta, ce la dobbiamo cavare da soli, lei è a mio carico, come posso abbandonarla quando mi ha cresciuto e non mi ha fatto mancare niente, con dignità, aiutateci voi, per carità, è urgente, non possiamo aspettare, speriamo che sia ancora viva, che non le sia successo niente, per piacere datemi qualcosa, qualunque cosa, quello che volete, quello che potete, al vostro buon cuore, Dio ve ne renderà merito a voi e a tutta la vostra famiglia, tanta salute e tanta fortuna a voi tutti, dottore vi prego, la situazione è disperata, non chiedo niente per me, ve lo giuro! Sono una brava persona, non ho mai fatto del male a nessuno, sono stato tanto sfortunato, ho bussato a tutte le porte ma nessuna si è aperta, chi aiuta uno come me… se non ci pensate voi che siete una brava persona, si vede subito, qualunque cosa, un piccolo contributo, che il Signore vi accompagni, pure mia nonna vi ringrazia assai.

– Non ho spiccioli – pronuncio quasi sottovoce nella cascata impetuosa di quelle parole travolgenti.

Si volta di scatto mostrandomi nitidamente i numeri graduati sul corpo cilindrico, inizia a saltellare come un canguro infuriato sullo stantuffo che scorre velocemente verso l’ago innestato in alto e, inclinandosi verso di me, me lo punta dritto alla gola.

– Ho capito che le buone maniere e l’educazione con egoisti insensibili come te non servono a niente. Ascoltami bene, bello, poche chiacchiere! Ti avverto che di natura sono monouso ma le condizioni della vita mi hanno portato a non poter risparmiarmi, pertanto sappi che ho contratto qualsiasi malattia letale, ho l’epatite, l’aids e pure la sifilide. Ora, se non vuoi che ti buchi la carne con le gocce di sangue infetto che sono nell’ago, dammi il portafogli e pure l’orologio e il telefono, stronzo! e muoviti se no ti scanno, hai capito? ti ammazzo, ti rovino, ti squarto.

– Non ho niente, veramente, non ho soldi e nemmeno il telefono, mi creda, è la verità!

– Ah, è così? Allora l’hai voluto tu – e con un balzo si lancia contro di me affondando l’ago appuntito nel mio collo. Un urlo terrificante mi esce dalla gola squarciando con la sua eco il silenzio nel vagone deserto.

– Sta bene, signore? 

Spalanco gli occhi sulla divisa del controllore di fronte a me che tira indietro il dito dalla mia spalla. Mi guardo attorno completamente spaesato sotto lo sguardo incuriosito dei tanti passeggeri seduti al loro posto nella carrozza piena. Mi detergo con le mani le gocce di sudore sulla fronte, ripiego il giornale accartocciato sul mio torace e lo poggio sulle ginocchia. Di là dal finestrino la campagna sfreccia velocemente nel silenzio ovattato della vettura climatizzata. Sono sul treno in viaggio.

– Posso vedere il suo titolo di viaggio, per favore? – mormora con calma il controllore.

Senza rispondere allungo le mani automaticamente nella tasca interna della giacca, poi in quelle esterne, in quelle dei pantaloni, quindi afferro la borsa alzandomi di scatto, apro la cerniera centrale e quelle laterali. Ripeto le stesse operazioni ancora una volta.

– Lei non ci crederà, non è mia abitudine cercare scuse, non ho mai disturbato nessuno, me la sono sempre cavata da solo senza l’aiuto di nessuno, né l’ho cercato, ho guadagnato i miei soldi col mio lavoro, ho  curato la mia famiglia badando a loro, ho dato sicurezza e affetto a mia moglie e ai miei figli, ai miei genitori, ai miei nonni, mi sono sempre comportato con senso del dovere e onestà, non ho alcuna malattia e sono sano come un pesce, ho rispettato lo Stato e le istituzioni, non ho mai  cercato favori, mi creda! non mi sono mai vergognato in vita mia, sono stato irreprensibile, non sono mai sfuggito alle mie responsabilità, sono anche stato additato come esempio, impeccabile nel comportamento, le ripeto, non sono abituato a cercare scuse o a disturbare, è vero, mi creda! non ho mai raggirato né ingannato nessuno, non ho mai cercato l’altrui aiuto senza ricambiarlo, mi creda, ma…          


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