Blog a cura di Francesco Strazza

13. Sogni e incubi

Finalmente l’avvocato Alfonso De Benedictis si era deciso ad andare a letto. La stanchezza cominciava a farsi sentire sulla sua dura scorza provata dalla giornata impegnativa. La sua vita
non aveva mai conosciuto pause, era un impegno continuo di decisioni e azioni, di deleghe e assunzioni personali, di concretezza e diplomazia. La giornata non bastava mai e fino a dieci anni prima neppure la notte. Aveva dovuto regolare i suoi ritmi biologici e professionali per prolungare la durata di queste due vite inscindibili, moderando l’attività fisica a beneficio di una maggiore intensità intellettiva. Ma nei successivi dieci anni avrebbe dovuto controllare anche quest’ultima, pena l’esaurimento delle sue risorse. Ecco, allora, che questa candidatura politica arrivava al momento giusto per apportare vitalità al suo apparato chimico, fisico e mentale, calandosi nel copione di una parte mai recitata direttamente. La sua testa si stava alleggerendo, i pensieri cerebrali si dileguavano, il battito cardiaco rallentava, la respirazione si era fatta pesante ed era sprofondato in un attimo nel sonno. E sognava. Era appena finito il suo mandato di primo cittadino, la sua giunta comunale aveva tagliato il traguardo dei fatidici cinque anni con un paio di rimpasti nell’organico degli assessori, risultato di inevitabili crisi nel percorso della consiliatura. A fronte del dissesto economico-finanziario della città, il ripianamento dell’enorme debito aveva fatto passi di tartaruga azzoppata, gli aiuti provenienti dal governo centrale erano serviti appena per il pagamento dei dipendenti e di qualche creditore. L’aumento spropositato della tassa sui rifiuti aveva ripulito ulteriormente le tasche dei cittadini ma non le strade, ingombre di immondizia a ciclo continuo. Non era stato risolto nessun problema occupazionale sui numerosi tavoli di trattative non andate a buon fine, anzi era cresciuta esponenzialmente la disoccupazione e nella zona industriale la cassa integrazione e la mobilità erano padrone incontrastate. Non c’erano fondi a sufficienza per mettere almeno una toppa ai tanti delicati casi sociali di indigenza galoppante. L’emigrazione aveva raggiunto livelli preoccupanti di spopolamento tale che nel giro di una ventina d’anni si prevedeva una popolazione di anziani nel completo abbandono. La città proseguiva nel suo triste stato di degrado e impoverimento tanto da essere evitata anche dalle incursioni della criminalità limitrofa e dell’est europeo. Erano drasticamente diminuite, tra il giubilo dei nostalgici e dei neofascisti, le assegnazioni di quote europee di migranti per assenza di strutture ricettive, tra il disappunto delle cooperative fittizie di aiuti umanitari private dei contributi statali. Le attività commerciali, senza un piano di sviluppo economico e di sostegno finanziario, abbassavano definitivamente le saracinesche deturpate dalle bombolette dei vandali con scritte e disegni insensati. La città ospedaliera era al tracollo per mancanza di medici, infermieri e posti letto. Il cimitero necessitava di un ampliamento. Il calcio continuava nella sua crisi perenne, disputando campionati minori rispetto alle aspettative della tifoseria, il basket era stato affossato nelle categorie dilettanti cosicché lo sport aveva esaurito il suo ruolo identitario di propulsione sociale e orgoglio cittadino. Il sindaco, l’avvocato Alfonso De Benedictis, aveva saputo infilare la bella faccia e la colta favella nei momenti e nei luoghi opportuni (fuorché la Curva Sud) e, lungi dal proporre la sua candidatura per la riconferma, esigeva, come tanti predecessori, il giusto premio alla sua prestazione alla stregua di tanti allenatori sportivi al termine della stagione culminata con la retrocessione della propria squadra. E l’aver esposto in prima linea la sua onorabilità meritava una ben più alta onorificenza. Sentiva una vocina da lontano sussurrare: senatore! senatore! mentre riapriva gli occhi ridestato dall’impellenza della vescica, sprovvista della decente protezione di una prostata all’altezza del compito di impedire la fuoriuscita incontrollata di un fiotto di vergognosa urina. Ma fino a quando tenevano gli sfinteri, pensava, non c’era altra maniera che potesse svergognare l’intera classe politica.

 Si avvicinava l’ora di uscita e d’incanto l’aria, da rarefatta che era nelle prime ore, diventava respirabile una volta scesi dall’alta quota dell’orario infinito. Di lì a un’ora sarebbero andati via tutti i seccatori richiamati dal pranzo e loro, gli impiegati ai piani bassi, nella funzione di coccodrilli nel fossato a protezione della fortezza, avrebbero potuto rilassarsi in assenza di nemici cui impedire l’accesso alle segrete stanze superiori. Talora si poteva addirittura assistere a scene estemporanee di cordialità spontanea verso gli utenti – beninteso, secondo il grado di interferenza e disturbo di questi ultimi – oppure ostentatamente manifesta tra gli stessi uscieri della guardiola, da buoni compari. A uno scopo preciso la seconda: impadronirsi dei telefoni liberi per chiamate personali spacciate per lavoro. Quindi, con i colleghi distrattamente all’ascolto in attesa del proprio turno di fruizione telefonica, si sentiva Mimmo Perullo chiedere alla moglie – opportunamente addestrata e chiamata dottoressa – il menù del pranzo denominato
risma di carta, toner o pass di accesso, se si parlava rispettivamente di primi, secondi o contorni. Ogni impiegato aveva il suo linguaggio in codice per l’interlocutore all’altro capo del filo. Nessuno aveva l’anello al naso ma l’apparenza contava più della sostanza in determinati momenti e ciascuno recitava alla perfezione la parte del finto tonto. D’altronde era una sorta di
allenamento quotidiano da mettere in campo la mattina dopo con i visitatori alquanto inopportuni e molesti. Nell’attuale periodo, però, il molestatore numero uno era il consuocero che si ostinava a chiamarlo dall’ufficio della Motorizzazione (immaginava con le stesse modalità operanti in Comune e per risparmio della bolletta di casa, come si conveniva) per chiedere, non tanto velatamente come l’educazione avrebbe suggerito, la divisione del conto della cerimonia nuziale dei loro figli. Non serviva a niente farsi negare dicendosi impegnato, insisteva senza ritegno come se fosse stato il figlio a volersi sposare e non sua figlia. E lasciamo perdere quello che Mimmo Perullo pensava al riguardo del presunto favore del consuocero che dava in sposa la sua unica figlia a un “uomo ordinario” (il figlio Salvatore), definito tale ipocritamente, ben immaginando quale fosse il reale epiteto affibbiatogli. Perché se lui, Mimmo, avesse perso la pazienza – e la stava perdendo – avrebbe ben saputo dire pane al pane, senza mezzi termini, della futura nuora. L’unico motivo che lo tratteneva era il traguardo quasi raggiunto del possesso pieno ed esclusivo della moglie Concettina, la sua devota cuoca e cameriera, fornita dalla natura di tutti gli accessori e da lui ben ammaestrata.

 Intanto sul corso l’intera fila di automobilisti era caduta nel sonno più profondo e Lucia Speranza, nel minuscolo abitacolo della sua utilitaria, aveva ripreso a sognare dopo un’occhiata
intontita, attraverso il parabrezza appannato, alla colonna ormai pietrificata. Ma, più che sogni, erano incubi. Dapprima si avvicinava Salvatore, apriva la portiera, si sedeva dal lato passeggero e con la divisa nera a strisce gialle della vigilanza, impugnata la pistola, la rivolgeva contro di lei, la sua sposa, minacciando di premere il grilletto qualora avesse deciso di non sposarlo più, non amandolo pienamente. E alla sua replica che, invece, lo avrebbe sposato certamente e che avrebbero continuato a stare insieme come da dodici anni a quella parte, ecco allora che Salvatore rivolgeva l’arma contro se stesso sparandosi alla tempia. Si era svegliata urlando e ripulendosi la faccia dalle immaginarie chiazze di sangue. Subito dopo era stato il turno del suocero Mimmo che, seduto in auto alle sue spalle, l’aveva afferrata con le mani per il collo minacciando di strangolarla se avesse sposato il figlio che continuava a infangare con la sua condotta riprovevole, subissandola di epiteti irripetibili sulla pagina e a voce, con la desinenza finale in …oia, …ttana, …ccola. E alla replica di lei che non avrebbe più sposato suo figlio, lasciandolo a casa dei genitori, ecco allora che il suocero aveva emesso l’ultimo rantolo soffocandosi con un sacchetto di plastica avvolto intorno alla testa. Si era risvegliata ancora urlando, riducendo in brandelli il poggiatesta del suo sedile. Riaddormentatasi, aveva sognato suo padre che contava i soldi sul tavolo in cucina dicendole che le spese del matrimonio erano insostenibili per le sue limitate finanze e che avrebbe pagato per trecento invitati, per il menù pantagruelico con vini e spumanti doc e igp, per le bomboniere d’oro e l’affitto del giardino della villa nobiliare, per la suite dell’albergo a quattro stelle ma lei avrebbe dovuto necessariamente rinunciare all’abito bianco e alla cerimonia religiosa in duomo per una più indicata funzione civile in comune, vestita con un morigerato abito color cenere. Allora lei aveva afferrato il coltello del pane e sgozzato suo padre con un secco fendente. Ridestata dalle sue stesse urla, aveva staccato con un solo colpo lo specchietto retrovisore interno agitandolo nell’aria irrespirabile del veicolo. Si era addormentata ancora una volta senza più sognare, ripetendo con un filo di voce assonnata le preghiere che non recitava dal tempo del collegio dalle suore, con la madre superiora che l’assolveva dai suoi redimibili peccati carezzandole la testa con una mano e con l’altra contando i soldi paterni delle rette mensili.

 Era stato in pieno inverno quando Carmine Abbascio aveva lavorato nella libreria. Un giorno come gli altri c’era un’aria gelida che sferzava il corso principale. Nessuno in giro, anche i perdigiorno erano costretti a rimanere chiusi in casa per la gioia dei familiari. Si avvicinava l’orario di chiusura dell’una e trenta, un paio di ore di pausa prima della riapertura pomeridiana. Carmine Abbascio era solito rimanere in negozio a leggere, si chiudeva dentro e si accomodava su una sedia dietro il bancone, talvolta senza neanche mangiare. Ma quel giorno, appena dati due giri di chiave alla porta di vetro, era comparsa sulla soglia la commessa dell’intimo, Lucia, con due cartoni di pizze in mano e un sorriso a trentadue denti. Aveva provato, Carmine, a farfugliare una scusa ma si era ritrovato seduto con la pizza in mano di fronte all’esuberante ragazza con le gambe accavallate in una minigonna nel chiaroscuro del locale deserto, come sempre, e chiuso dall’interno. Assieme ai bocconi di pizza e alle sorsate di birra in lattina, il timido libraio ingoiava ettolitri di saliva, bloccato dall’imbarazzo di una situazione fuori dall’ordinario. Al contrario della commessa che sembrava a suo agio, eccitata dall’atmosfera elettrizzante. Erano poco più che sconosciuti, oltre i saluti di prammatica e di educazione – di lui – e i sorrisi e le chiacchiere frivole – di lei. Finito di mangiare, Carmine aveva acceso una sigaretta e fumato spasmodicamente come un tabagista in astinenza, lei gli aveva chiesto due tiri e subito, maliziosamente, soffiato il fumo in faccia, ridendo fino alla sguaiatezza come una strega in un sabba. Gli aveva restituito la sigaretta avvicinandosi e sedendosi sulle sue gambe, cingendogli con un braccio le spalle, soffiandogli in un orecchio e succhiandogli il lobo. L’eccitazione di Carmine si era bloccata nella pancia impedendo l’afflusso di sangue all’organo deputato. Almeno fino a quando Lucia, signora e padrona dell’ambiente incandescente, non gli aveva con una mossa fulminea tirato giù la patta dei pantaloni e con un solo boccone afferrato l’organo preposto, bloccato dall’emozione della sua prima volta, orfano della consueta mano destra. C’era voluto un po’ ma alla fine era venuto il botto esplosivo, fino alle lacrime – di lui – e al sogghigno infernale – di lei. Ripulita la bocca con la carta della pizza, lei era uscita di scena in fretta a causa di una sopraggiunta cervicale, lasciando lui, l’organo designato, con la testa scappellata e una goccia di liquido rappresa in cima, in bilico tra la caduta e il rientro alla base. Era stata l’ultima mattina che Carmine aveva lavorato nella libreria, dimettendosi senza preavviso nel pomeriggio tra la costernazione dei suoi genitori e la sorpresa del proprietario, costretto ad abbandonare la remunerativa attività di videomaker e rimpiangendo la perduta vicinanza delle sue pornostar, sospirando con afflizione sulla soglia della libreria con una sigaretta in bocca.

 Era dunque giunto l’ennesimo epilogo di un’altra giornata campale di Pietro Taùto, alla frenetica ricerca della ricchezza d’emblée che cercava di scovare nei suoi soliti percorsi, come se avesse tralasciato qualcosa di importante, per cui ritentava più volte ma non era mai fortunato. Voleva a ogni costo i milioni come in passato i miliardi, non perché fossero calate le sue pretese, era soltanto cambiata la moneta corrente. Prima le lire, dopo gli euro ma il suo deposito restava sfondato, col misero tintinnare dei centesimi caduti sul fondo buio laggiù in basso, come i suoi desideri. Se avesse incassato il più alto “sei più uno” della storia del superenalotto avrebbe comprato la felicità, altroché! e pure la libertà. Avrebbe donato qualche milioncino alla moglie e ai figli e sarebbe andato via da Nguaiata, una città troppo piccola per le sue smisurate voglie, gente timorosa di assumersi rischi. Si sarebbe trasferito al nord, a Sanremo, a Venezia o a Campione, oppure sarebbe volato negli Stati Uniti a Las Vegas, il paese dei balocchi, dove avrebbe dedicato il resto della sua vita a spendere tutto quello che aveva guadagnato onestamente. Auto potenti e belle donne, alberghi e ristoranti di lusso, dormire di giorno e vivere la notte senza i limiti e le responsabilità che lo tenevano inchiodato al suolo impedendogli di volare come sarebbe stato nelle sue possibilità, sacrificato nel nome del dovere quotidiano verso la famiglia. E a proposito di famiglia, si era rammentato che ormai da tempo non aveva notizie dei suoi anziani genitori dei quali si era sempre preso cura sua sorella. Era sua moglie a tenere in piedi i rapporti con loro. Almeno così era successo negli anni scorsi ma non aveva avuto tempo e modo di sapere eventuali novità. Quindi, risalito in auto dopo il pompino, era ripartito alla volta di casa dei suoi, la stessa in affitto dove era nato e cresciuto in un quartiere poco distante dal suo. Sul citofono non aveva trovato la targhetta col nome Taùto ma il portone era socchiuso. Salito al primo piano e suonato il campanello, non era venuto nessuno ad aprire. Aveva quindi chiesto alla vicina. Informato che i suoi avevano lasciato l’appartamento da mesi e che vivevano in una casa di riposo in periferia, che suo padre non era più autosufficiente e che la madre non ce la faceva da sola nonostante l’aiuto della figlia, era corso senza indugio alla residenza sanitaria assistita dove, qualificatosi come il legittimo figlio, era entrato nella stanza dei suoi. Suo padre era a letto, la madre seduta su una poltrona vicino. C’era aria viziata in giro, la finestra chiusa. L’aveva aperta e, appoggiato al davanzale fumando una sigaretta, aveva chiesto a quanto ammontasse la spesa mensile e se avessero avuto bisogno di un aiuto economico da parte sua, essendo il figlio maschio. Il padre lo fissava senza vederlo, la madre ripeteva che avrebbero portato quanto prima la cena in camera. Era entrata la sorella che, sorpresa di trovarlo lì, lo aveva pregato di non fumare. Lui l’aveva trascinata in corridoio e domandato anche a lei se avesse potuto essere d’aiuto. Non ottenuta risposta, si era prodigato in
profferte di sostegno incondizionato salutandola con pacche sulle spalle, congedandosi dai genitori agitando la mano sulla porta. Risalito in macchina, aveva pensato che non era il caso di approfondire l’entità del conto postale del padre, la sua parte era tutelata dalla legge quale legittimo erede nel caso la situazione fosse precipitata, come l’apparenza lasciava presagire. Se avesse centrato quell’agognato “sei più uno” avrebbe potuto generosamente rinunciare alla sua quota d’eredità in favore della sorella, qualcosa meritava anche lei. Accesa l’ennesima sigaretta, aveva deciso di rientrare alla base come ogni benedetto giorno.

 C’era stato un tempo nella vita di Piglio in cui era passato attraverso gli affidi temporanei ma non era mai stato adottato definitivamente con una casa, una cuccia e dei padroni, una vera famiglia dopo che la sua di origine era stata dispersa in una perentoria diaspora. Aveva accarezzato questo sogno ogniqualvolta passava da un gruppo di persone all’altro per periodi limitati. Per disparati motivi ritornava al punto di partenza, che siano stati l’impegno quotidiano verso di lui o quelli personali degli affidatari, gente animata da buona volontà ma le loro intenzioni si arenavano su problemi difficilmente risolvibili, se non con una tenacia fuori dal comune. Il principale era l’insofferenza di Piglio per collari e guinzagli, necessari e obbligatori per una convivenza civile con gli altri esseri sociali. Addirittura la museruola gli provocava crisi di soffocamento tali da perdere la coscienza e i sensi. Sembrava geneticamente allergico a ogni forma di contenzione e limitazione dei movimenti e non riuscendo a stare al passo dei padroni in prova per via della sua mole, si assisteva a scene di presunta disobbedienza o insubordinazione nonostante la sua indole mite e pacifica. Non c’era stato verso neanche attraverso il lavoro di addestratori professionali che, ricorrendo alle maniere spicce e all’uso della forza, non avevano fatto altro che suscitare la sua aggressività naturale, normalmente controllata. Cosicché si era costretti a lasciarlo libero in spazi recintati come un cane da guardia recluso o da caccia a riposo. Non avere un giardino ma soltanto un appartamento in un condominio suscitava non pochi problemi all’atto di portarlo fuori per i suoi bisogni. Completamente libero era impensabile. Perciò era stato ricondotto a malincuore nella sua galera, la causa principale di quegli effetti, dell’avversione e ripugnanza a quella specie di immobilizzazione forzata, radice dolorosa di quelle reazioni fuori controllo. Per ironia della sorte, tra le sbarre si sentiva libero, in pace, senza lacci al collo che lo accalappiassero fino all’asfissia o allo svenimento. Il destino continuava a
prendersi gioco di lui, innocente dalla nascita.

 


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