Stava suonando la sveglia quando l’avvocato Alfonso De Benedictis aveva aperto gli occhi, sua moglie continuava a dormire rumorosamente. Si era alzato dopo qualche minuto seduto sul materasso evitando sbalzi di pressione. Andato in cucina, si era preparato la moka tradizionale ignorando la macchinetta con le cialde. I brutti pensieri erano evaporati dalla sua testa, non ricordava di aver sognato come succedeva spesso negli ultimi anni. Mentre sorseggiava il caffè sentiva che la sua vita stava per prendere una nuova direzione, al momento ignota ma foriera di grandi novità. Sotto la doccia, col getto d’acqua calda sulla testa, presentiva come una nuova nascita e quest’impressione l’accompagnava intanto che si vestiva davanti allo specchio, come indossare un abito non ancora usato, tenuto da sempre sotto naftalina. Appena pronto aveva guardato la moglie sprofondata nel sonno col suo lieve russare a bocca aperta, la maschera sugli occhi, la trapunta fin sotto il mento. Lei non aveva mai avuto paura del buio. Si era tirato dietro la pesante porta blindata e con l’ascensore era sceso in garage.
A bordo della Mercedes si era avviato allo studio. Appena entrato aveva detto alla segretaria che non voleva assolutamente essere disturbato, che annullasse tutti gli appuntamenti. Seduto alla scrivania, aveva composto il numero privato che teneva in tasca da una settimana, scritto a mano su un foglio di carta pieghettato come un pizzino. Era di un cellulare estero, una serie di numeri criptati come una combinazione segreta. Gli aveva risposto una voce anziana con una forte inflessione dialettale della provincia locale, dissimulata in un italiano imperfetto. Nel colloquio di pochi minuti, l’eminenza grigia gli aveva dato appuntamento in un luogo segreto, il Palazzo del Comune di Nguaiata, quello stesso giorno all’ora di pranzo nell’ufficio del sindaco. L’avvocato De Benedictis aveva iniziato a passare le consegne di buona parte dell’attività dello studio al genero, informato confidenzialmente del nuovo incarico che avrebbe ricoperto, tenendo per sé gli incartamenti e i documenti più riservati. Poco prima dell’appuntamento era salito a bordo della sua automobile e si era diretto verso il suo destino che lo attendeva al varco da una vita intera. Era entrato, come gli era stato suggerito, dal lato posteriore dell’edificio, l’entrata del garage, ma aveva trovato la saracinesca abbassata. Aveva risalito in retromarcia il passo carraio e parcheggiato nel piazzale antistante l’entrata, verso cui si era avviato superando un cancello accostato. Nel corridoio d’ingresso l’accesso era sbarrato da una porta di vetro chiusa a chiave. Era allora tornato sui suoi passi fino alla portineria al cui interno un individuo basso e pelato dalla pancia prominente si aggirava come un leone in gabbia. Alla sua richiesta di accedere ai piani superiori, il suddetto individuo continuava a ignorarlo camminando sempre più nervosamente nella guardiola. Alle vibranti proteste dell’avvocato De Benedictis, cui si erano aggiunte minacce non tanto velate precedute dalla classica formula del “lei non sa chi sono io”, il “lei” in questione aveva alzato lo sguardo incollerito verso il “chi sono io” e afferrato un oggetto contundente si era scagliato contro il malcapitato colpendolo in testa tra la fronte e la tempia, provocando la rovinosa caduta del poveretto che era stramazzato al suolo esanime.
Quando mancava ormai poco alla fine della giornata, infinita come tutte le altre, era stata consegnata in portineria una comunicazione firmata dal dirigente capo dell’ufficio del personale che obbligava a uno straordinario di due ore gli uscieri per sopravvenute urgenze di servizio. Dei custodi al lavoro quel giorno, un paio era imboscato d’abitudine, un altro defilato di routine mentre Mimmo Perullo era presente nella guardiola poiché, approssimandosi l’orario di uscita, stava recuperando i giornali da portare a casa. Ragione per cui era stato precettato per garantire la continuità del servizio. Prima di perdere il lume della ragione, si era preoccupato all’istante della propria incolumità personale essendo sopraggiunta l’ora del pasto, in assenza del quale sarebbero certamente collassate le sue funzioni organiche. Pertanto aveva telefonato senza indugio alla moglie Concettina intimandole di consegnargli sul posto una gamella di acciaio – che conservava dai tempi del militare, per i casi di emergenza – con mezzo chilo abbondante di pastasciutta al pomodoro, debitamente cosparsa di parmigiano. Una volta recapitatagli, l’aveva consumata con ferocia belluina digrignando canini, incisivi e molari tra scintille di smalto e spruzzi di sugo, cui era seguita una depressione postprandiale, privato della sua poltrona prediletta e della sacrosanta pennichella. Ragione per cui era scivolato su un terreno di alienante squilibrio, precipitando nel burrone della collera. Avrebbe preferito una sospensione temporanea, un richiamo disciplinare, l’azzeramento delle ferie, finanche un preavviso di licenziamento ma la parola straordinario non riusciva proprio a digerirla, a differenza della pastasciutta. Quando ecco che, di là dal vetro, un bellimbusto tutto in ghingheri, dall’aria sazia e con i coglioni riposati, lo aveva aggredito con insulti e minacce, nemmeno fosse stato nell’orario ordinario. Non ci aveva più visto e afferrata la gamella gli aveva assestato un colpo in testa spedendolo al tappeto. Aveva dovuto rinunciare anche alla scarpetta, con tutto quel ben di Dio schizzato a terra e sulle pareti.
Con gli occhi socchiusi continuava a sentire dei colpi secchi. Teneva le mani davanti al viso per proteggersi dalla luce. Quando Lucia Speranza li aveva finalmente riaperti, i colpi continuavano a battere e risuonare nell’abitacolo. Di là dalla portiera dell’auto, dal suo lato, un vigile urbano gli faceva cenno di tirar giù il vetro. La sua automobile era in mezzo alla strada, non c’era più nessuna fila, né avanti né dietro. Quando aveva abbassato il finestrino il vigile le aveva allungato un foglio che lei aveva preso. Era un verbale di cinquanta euro per intralcio al traffico e sosta vietata. Non c’era nessuno in giro. Aveva guardato la data e l’ora sullo smartphone. Il cielo era nuvoloso, minacciava pioggia. L’agente era sparito, si ritrovava in mano la multa. Stava squillando il cellulare. Era la proprietaria del negozio che le chiedeva dove fosse finita, perché non le avesse consegnato l’incasso del giorno precedente e, soprattutto, perché non aveva ancora aperto il negozio. Era incazzata nera, le stava dicendo che poteva considerarsi licenziata, che non aveva più bisogno di una come lei e aveva riattaccato. Nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo che era arrivato un nuovo squillo. Era suo padre, alquanto spazientito. Dopo averle chiesto dove diavolo si fosse cacciata, stava dicendo che a casa erano preoccupati non avendo sue notizie. Benché non avesse mai avuto fiducia in lei, una cosa del genere proprio non se l’aspettava. Aveva aggiunto che forse era meglio che si cercasse un’altra casa dove abitare, che cominciasse a prendersi le sue responsabilità, che non era più possibile alla sua età continuare a fare la ragazzina irresponsabile, che non era davvero pronta a metter su famiglia. E aveva messo giù senza che Lucia avesse neanche detto pronto. C’era un netturbino con la ramazza che, spazzando svogliatamente il marciapiede, la guardava incuriosito. Poche persone in giro, perlopiù accompagnati da cani che defecavano liberamente. Un nuovo squillo dallo smartphone. Anche Salvatore le stava domandando dove fosse avendola cercata dapprima a casa dai suoi e poi al negozio. Questo proprio non se l’aspettava, aveva aggiunto, forse sarebbe stato meglio prendersi una pausa di riflessione e aveva riattaccato senza che lei avesse detto bau. Spento il telefono oramai scarico, aveva messo in moto ed era partita a scheggia lungo la via deserta con lo stereo a palla e il clacson premuto. In una curva aveva evitato all’ultimo istante di investire un ragazzo che camminava trafelato in mezzo alla strada. Inchiodato, era subito scesa. Il ragazzo aveva un’aria smarrita, lo sguardo sconvolto, stringeva un libro tra le mani. Lucia lo aveva fatto entrare in auto prendendolo per mano. Quindi era ripartita a tutto gas allontanandosi da Nguaiata. Aveva parcheggiato in una radura tra gli alberi, a poca distanza da un monastero di clausura. Il ragazzo, accesa una sigaretta, gliela aveva passata. Lucia aveva fatto un paio di lunghe boccate soffiandogli il fumo in faccia. Lui aveva sorriso, i lineamenti del viso distesi. Lei si era avvicinata alle sue labbra e l’aveva baciato a lungo tenendogli la mano sulla patta. Mentre gliela sbottonava, aveva abbassato lo schienale del sedile con una mossa fulminea e gli era andata sopra a cavalcioni lasciandosi penetrare. Aveva cominciato a dibattersi furiosamente stringendo tra i denti il lobo dell’orecchio del ragazzo che la teneva stretta a sé in vita. Erano venuti assieme urlando come animali sgozzati, rimanendo immobili uno dentro l’altra, lungamente. Lucia Speranza, attraverso il lunotto posteriore appannato, guardava allucinata il monastero, prorompendo, come per sortilegio, in una risata luciferina con gli occhi iniettati di sangue.
Carmine Abbascio aveva cominciato a correre come mai aveva fatto, liberando tutta l’energia compressa nel suo corpo. Distendeva le gambe oscillando le braccia lungo i fianchi con un movimento sincronizzato che aveva preso un ritmo regolare. La testa dondolava come un metronomo che scandiva il tempo delle ampie falcate. E questa corsa folle era proseguita fino all’esaurimento del respiro che, dai polmoni allargati a mantice, soffiava impetuoso dalle narici dilatate spezzando ogni resistenza interna. I muscoli si erano allungati nello sforzo sostenuto, liberi dalle tensioni e dalle contratture accumulate, sfruttati fino allo spasimo. Il pulsare del cuore, come un tamburo, rilasciava un’energia universale a lungo trattenuta, un battito primitivo che dettava una cadenza cosmica. Aveva corso fino allo stremo delle forze che lo avevano lasciato senza fiato e senza tensione con la bocca aperta ad aspirare tutta l’aria del mondo. E mentre con gli occhi sgranati dallo sforzo attraversava la strada, stava per essere investito da un’auto in corsa sfrenata, evitando d’un pelo l’impatto. Spaventato dal pericolo corso si era bloccato con i piedi a terra, fino a quando una ragazza dall’aspetto familiare lo aveva preso per mano e condotto in salvo. Si era seduto al suo fianco riprendendo insieme la corsa, lontano dalla città e dal suo grigiore. Si erano fermati in alto in mezzo a una radura, nel verde tranquillizzante degli alberi e dell’erba bagnata. Rilassato dalla natura aveva acceso una sigaretta condividendola con la ragazza che gli trasmetteva una familiarità soprannaturale, un déjà vu misterioso. Quando lei gli si era avvicinata, l’aveva lasciata fare ricambiando i suoi gesti seguendola passo passo in un’altra corsa, non più solitaria, nel cammino iniziatico fino alla fine miracolosa che aveva accompagnato con un urlo liberatorio. Alla fine, era rimasto avvinghiato a lei sedotto e sottomesso, ammaliato tra lacrime silenziose che rigavano il suo volto rasserenato.
Dopo la lite furiosa che dal corridoio si era spostata sul pianerottolo, degenerata dalle minacce verbali in spintoni, schiaffi e calci, Pietro Taùto si era ritrovato in mezzo alla strada. Aveva segni evidenti della colluttazione con la moglie sul volto graffiato e livido e sui vestiti sbrindellati. Accesa l’ultima sigaretta e aspirandola con rabbia si era diretto al bar. Andato in bagno a sciacquarsi la faccia, guardandosi allo specchio si stava tamponando con la carta le macchie di sangue sugli zigomi e sulla fronte, maledicendo a voce alta quella pazza isterica. Aveva chiesto una sigaretta al figlio Mario ancora inchiodato sullo sgabello davanti alla slot, che gliela stava allungando senza guardarlo. Al bancone aveva ordinato un caffè, una grappa e un pacchetto di sigarette tra quei pochi avventori che lo ignoravano abituati a farsi gli affari propri. Pietro, con un secondo bicchiere di grappa in mano, si era seduto a un tavolino a leggere la gazzetta sportiva proseguendo a brontolare e bestemmiare contro la moglie ingrata. Aveva continuato a bere fino all’ora di chiusura. Il barista aveva tirato giù mezza saracinesca e stava spazzando tra i tavoli mettendoci le sedie sopra. Il locale era vuoto da un pezzo. Pietro Taùto avanzava barcollando verso il bancone dove aveva chiesto l’ultima grappa che gli era stata rifiutata e invitato ad andare fuori. Uscito in strada, pioveva e l’aria era fredda. Addossato a un muro pisciava prima di stramazzare a terra, ubriaco marcio. Era caduto nella pozza della sua urina, morto di sonno e fradicio d’acqua che continuava a venir giù dal cielo. Poco più in là il figlio Mario, in compagnia degli amici, rideva e sbraitava nel silenzio del quartiere dormitorio. Fumavano erba fracassando le bottiglie di birra contro il muro dove aveva pisciato il padre, disteso a terra nel buio sotto la pioggia. Non si erano accorti di lui quando si stavano riparando nella sua auto parcheggiata nei paraggi, lasciata come sempre aperta, continuando a fumare fino allo stordimento. Stavolta il silenzio era rotto da qualche macchina di passaggio e dall’intensità dell’acquazzone che si scatenava con veemenza. Le luci nelle case erano spente da un bel pezzo quando si erano oscurati anche i lampioni lasciando il quartiere nel buio più nero.
Piglio era rifugiato sul suo giaciglio al riparo dalla pioggia sotto il balcone. Dormiva profondamente quando era stato svegliato dalle bottiglie di birra fracassate contro il muro. Aveva drizzato le orecchie mettendosi seduto sui materassi, poi si era accucciato seguendo con lo sguardo il gruppo di teppistelli che entrava nell’automobile parcheggiata. Era calato il buio sul quartiere accompagnato dallo scroscio violento della pioggia. Si era tirato su sgranchendosi le membra addormentate e, dopo un’energica scrollata, si era avviato a fare i suoi bisogni. Li aveva fatti, come il solito, sulla bocca delle fogne e, aiutato dall’acqua, aveva sospinto le feci dentro il buco aperto liberando la strada. Stava ritornando al suo giaciglio quando si era accorto dell’uomo disteso a terra. Si era avvicinato riconoscendo il suo odore inconfondibile, sebbene accentuato dalla puzza di urina. Fosse rimasto ancora in quella pozza di acqua che aumentava, sarebbe certamente annegato, privo di sensi com’era. Lo aveva afferrato per la collottola cominciando a tirarlo e aveva continuato a trascinarlo fino alla sua cuccia, al riparo dalla pioggia battente che non accennava a diminuire. Al buio e sotto l’acqua aveva faticato non poco al soccorso dello sventurato finché non aveva raggiunto la salvezza issandolo a bordo dei materassini. Gli aveva strappato con i denti gli abiti lacerati e rivestito fasciandolo con le sue coperte. Infine si era accucciato al suo fianco, accudendolo col calore del suo pelo. Stremato dallo sforzo, aveva chiuso nuovamente gli occhi sull’umanità priva di coscienza, naufragata in un’ostinata insensibilità.

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