In questo garage non c’è
freddo ma poca luce, la finestra non è molto grande. Approfitto dell’apertura delle porte per lasciarmi inondare. Sono al riparo vicino alla catasta di legna. È inverno, qui dentro vedo cimici, ragni e scorpioni.
Le ferite stanno rimarginandosi, i tagli sono stati eseguiti con perizia ma non capisco il motivo di questo mio accantonamento. Gli anni scorsi mi davano una ripulita in vista della bella stagione ma mi avevano sempre lasciato al mio posto. Invece stavolta sono stata rimossa e sollevata prima del mio letargo, forse sostituita, ma dalla mia posizione attuale non riesco a vedere chi ci sia adesso. O forse è vacante in attesa di altri candidati. Non sono mica anziana, non più giovane, d’accordo, ma grazie alla mia esperienza e alla conoscenza del luogo e delle condizioni del clima in generale, subito dopo ogni taglio stagionale, riprendevo velocemente la produzione.
Non mi spiego la rimozione. Che cosa vuoi che costassi? Avevo bisogno di pochi liquidi e grazie alla conoscenza del terreno in cui operavo, affondavo le mie radici esperte alla conquista di fertilità che riportavo in superficie sotto forma di abbondanza. Ma non è bastato. Forse stanno sottoponendo a manutenzione generale il sito per renderlo più produttivo, ma ci sarà ancora posto per me o questa mia improvvisa mobilità è sintomo di accantonamento? Una cosa è certa: sono stata rimossa e ridimensionata, ero in piena terra e ora sono costretta in vaso, come agli inizi.
Sono venuta su per talea, nell’economia dei costi già all’origine, è bastato un rametto trapiantato e, come da una costola dell’Adamo biblico, ha avuto origine la mia vita. Era un vivaio grandissimo il luogo ove ha preso l’avvio la mia vita. Dapprima sono stata messa in ammollo, un apprendistato in una placenta all’aperto con liquido amniotico da cui hanno visto la luce le mie prime esili radici. In seguito sono passata a un tirocinio in vasetti di plastica tra un misto di sabbia e terriccio. Al superamento dell’esame, sono stata finalmente ammessa e promossa in solidi vasi di coccio con terra e torba in cui le mie radici hanno trovato il luogo adatto per sospingere sempre più in alto la mia crescita. Ero ancora fragile, sostenuta da cannette di bambù e lacci di plastica, ma risaltava il mio vigore e il mio impegno a crescere e a produrre. Seguirono settimane di esposizione tra giovani mie simili e di altre specie, sottoposte al giudizio e all’esame di acquirenti delle nostre future prestazioni.
L’occasione per crescere si presentò quando stavo perdendo la speranza di lasciare il vivaio. Mi scelsero e acquistarono, quindi trasportarono qui nel giardino, di là dalla porta sul retro del garage. Avevano già preparato una grossa buca tutta per me con tanto concime. Mi sistemarono nella nuova postazione, addossata a una rete di recinzione. Mi liberarono dei lacci che m’imbrigliavano nel limitato vaso, indirizzarono i fragili rami lungo le maglie metalliche che avrei dovuto occupare. Prepararono il terreno, lo innaffiarono, e via! mi lasciarono sola nel nuovo sito.
Era al principio della primavera, mi trovai in un giardino ben curato col prato all’inglese, con tante piante di bordura sul suo perimetro: gelsomino, forsythia, ibisco, lauro, rose rampicanti, gerani in vaso, un orto in fondo, e un’intera rete metallica di un paio di metri d’altezza e di sei o sette di lunghezza tutta per me. Scoppiavo di entusiasmo prorompente che dovetti contenere e cominciai a pensare a una maglia alla volta da riempire.
Nel bel mezzo dell’estate tutti i miei sforzi furono ripagati dalla crescita dei rami che cominciarono a irrobustirsi e a intrecciarsi, dalla comparsa di belle foglie verdi e dentellate, e soprattutto dalla presenza di tanti bei fiori a trombetta arancioni riuniti in mazzi. Inoltre, grazie alle ventose presenti nei viticci filamentosi delle mie foglie, riuscivo ad avanzare nello spazio allungandomi e sostenendomi senza il supporto di bastoni o legacci. Così, stagione su stagione, mi distendevo creando delle nuvole di foglie impreziosite da mazzi di trombette.
La mia attività primaverile ed estiva era molto intensa. Tutto il giorno davo il massimo per ben figurare e regalare colore e scena al giardino di mia competenza. Questo dispendio mi conduceva alla fine dell’autunno e per tutto l’inverno a un crollo reso lampante dalla perdita delle foglie e dei fiori. I miei rami erano messi a nudo e trascorrevano la stagione fredda spogli e irrigiditi. Ma sapevo difendermi dalle avverse condizioni climatiche, non mi ammalavo, non fornivo riparo a eventuali parassiti che avessero voluto colonizzarmi in ragione del mio aspetto scarno e non necessitavo di coperture o accorgimenti atti alla mia salvaguardia .Col ripresentarsi della nuova stagione agli inizi di marzo, venivano rimossi con tagli secchi quei rami deboli che non avevano superato le intemperie o che avessero imboccato direzioni non in armonia col contesto generale, generando distonia anche estetica con l’ambiente circostante. Cosicché dopo questi piccoli tagli indolori ma necessari, ripartivo con maggior forza e impeto nella missione di abbellimento scenografico che mi era stata assegnata e commissionata con il mio acquisto. Non mi mancava la fantasia nell’allestimento dello spettacolo estivo con scenografie degne dei migliori arredatori, scultori, pittori, un’artista a tutto tondo insomma.
Avevo conquistato diverse maglie della rete sia orizzontalmente che verticalmente, avvinghiato i viticci disponendo le ventose in punti strategici che sarebbero stati utili per le mie azioni future. Con un bel colore verde acceso e lucente, occultavo i miei stessi rami e il supporto metallico su cui operavo. E, risultato più evidente, i fiori a mazzi luccicavano e si stagliavano nel loro colore scintillante, alle trombette mancava solo il suono per completare la meraviglia ottica.
Inoltre non volevo sfigurare con le altre piante mie colleghe che mi attorniavano con i loro sguardi indagatori. Avevo già avvertito una certa invidia strisciante per via dei risultati che cominciavo a ottenere, soprattutto da parte del vecchio lauro che non produceva fiori ma semplici foglie.
Mi preparai a una nuova esplosione coreografica di colore. Avevo nuove idee in mente che stupissero i miei utilizzatori. Facevo prove al riparo da sguardi indiscreti: performances innovative che andassero oltre la mera interpretazione di giardinaggio e lambissero campi artistici. Pertanto mi attrezzavo, grazie alle ventose e ai viticci, alla costruzione di nidi scultorei di foglie con al centro le trombette all’insù, come tanti piccoli beccucci imploranti cibo. Disegnavo altalene di sottili rametti con sedute di foglie su cui fissavo fiori in oscillazione dondolante. Presentavo filamenti cascanti con pioli floreali. Cornici di foglie dentellate con al centro riproduzioni di fiori dai lineamenti animali o umani. Mazzi di fiori dietro sipari di foglie che apparivano e scomparivano come fuochi d’artificio.
Il proprietario del giardino era stupefatto dalla mia ecletticità che andava affinandosi passando attraverso percorsi pittorici, scultorei e perfino circensi quando, simulando la presenza di esche inesistenti sotto forma di vermi-viticci o insetti-ventose, mi avvalevo delle esibizioni in scena di ignari uccelli. La mia era un’officina in fermento continuo.
Nel mio spazio di competenza territoriale non minacciavo altre piante togliendo loro posto, aria, luce o linfa. I miei colleghi e competitori erano allocati in altri posti e con caratteristiche differenti che avremmo potuto integrare vicendevolmente, garantendo a ogni nostra struttura ossigeno e liquidi, visibilità. Invece il mio successo generava invidia e rabbia. Le colleghe del giardino erano ferme nelle loro posizioni da anni e vegetavano in un’immobilità controproducente. Facevano il loro compitino stagionale, cercavano di conservare la salute e qualcuna di loro, ad esempio il lauro, rimanendo sempreverde tutto l’anno, provava ad accaparrarsi straordinari fasulli, avanzando pretese di cure fuori stagione quando l’intero giardino, con orto annesso, era in dismissione, fuori produzione e ognuna di noi poteva contare solo su indennità di mantenimento o di manutenzione straordinaria per calamità naturali. Erano anni che questo sistema assistenziale era radicato in fondo a ognuna di loro. È bastata la presenza di un elemento giovane e capace, dotato e voglioso, per scardinare questo immobilismo strutturale.
Ma io avevo radici, fusto e rami robusti, non mi lasciavo abbattere e riprendevo il percorso in sintonia con la natura risvegliata. Superavo i due metri d’altezza della stessa rete divisoria, formando delle gallerie, tubi di foglie simili a conchiglie che riproducevano persino suoni nelle giornate ventose. Oppure disegnavo parrucche a boccoli verdi con spille di fiori qua e là, effetti caleidoscopici in costante trasformazione. Mi ero espansa anche in lunghezza occupando tutta la facciata della rete e i miei filamenti spingevano ancora necessitando dell’aiuto del giardiniere che li indirizzò sull’altro lato della recinzione tracciando una curva. Quest’estensione delle mie prestazioni rese necessaria la rimozione di un paio di grosse rose rampicanti che furono ridimensionate e delocalizzate. La mia invasione non fu ben vista dalle colleghe che solidarizzarono con le rose appassite e si attivarono in azioni di disturbo nei miei confronti. Io non riuscivo a contenere la mia crescita e non volevo assolutamente tenerla a freno per non rovinare i rapporti con le altre. Ero l’orgoglio del giardiniere e non potevo certamente deludere le sue aspettative per l’obsoleto spirito di corporazione che non radicava più nel rinnovato terreno dei rapporti di produzione moderni.
La loro alleanza fu un’azione congiunta contro di me con l’invio di talpe alle mie radici, grazie all’occlusione e deviazione di cunicoli sotterranei che ben conoscevano. Il combinato proditorio non produsse danni perché imprigionai nelle mie fitte fondamenta questi agenti dannosi, bloccandone l’accesso ai circuiti vitali e costringendoli alla ritirata. Non mi piaceva quest’atmosfera di tensione in cui operavo e cercai la distensione nei rapporti di cooperazione, nel conseguimento di risultati comuni: non eravamo d’altronde nello stesso ambiente per raggiungere un obiettivo comune? Inviai loro pistilli, gemme e infiorescenze di prima qualità della mia vasta esposizione per mezzo d’insetti corrieri e di uccelli messaggeri. Inutilmente. Furono rispediti al mittente come scarti di magazzino. Addirittura l’ibisco dai fiori bianchi, invidioso delle mie trombette arancioni lucenti, mi recapitò una colonia di tarli e vermi, per la cui disinfestazione radicale dovetti ricorrere all’intervento straordinario di passeri artigiani, rondoni ebanisti e rospi sommozzatori. Dovetti sospendere l’attività e bloccare il ciclo produttivo pena la proliferazione di virus letali.
Presi atto dell’ostilità che mi circondava a dispetto delle mie buone intenzioni e continuai per la mia strada con rinnovato vigore. Mi dedicai a nuove creazioni con addobbi floreali di qualità superiore, sperimentai percorsi alternativi alla semplice mostra espositiva e tenni la conduzione di laboratori di arte in progress alle mie future talee, insegnando lo sviluppo della verticalità gotica con la robustezza romanica nelle installazioni in campo.
Le giornate non bastavano mai. Di notte ero occupata alla sorveglianza del mio territorio e dei suoi confini per prevenire attacchi delle mie vicine che, approfittando dell’oscurità, avrebbero potuto tendermi attacchi a tradimento. Ricordo una volta che, crollata in uno stato di profondo dormiveglia, vidi avanzare nella mia direzione il lauro, l’ibisco, la forsythia brandendo i rami a mo’ di bastone e le foglie a forma di seghe dentellate. Mi scossi allarmata ma le vidi immobili al loro posto. Era stato un incubo dettato dalla tensione. D’altronde erano talmente statiche nelle loro posizioni da rendere inverosimile un’iniziativa così dispendiosa. Però decisi ugualmente, per difendermi e riposare qualche ora serenamente, di adottare contromisure che scoraggiassero eventuali offensive di attacco, ricorrendo all’installazione ai miei bordi di finte telecamere, riutilizzando i fiori secchi camuffati ad arte. E assoldai un battaglione d’innocui bombi di pattugliamento adeguatamente ricompensati dai gustosi e freschi pistilli quotidiani.
Inoltre mi occupavo dei futuri piani di espansione alla ricerca di nuove maglie della rete da conquistare, con un’offerta differenziata rispetto all’attuale, in ragione della diversità del territorio acquisito. Grazie alle conoscenze dei bombi appena assunti, ebbi colloqui informali con sciami agguerriti di api che, alla fine della negoziazione, s’incaricarono dell’export di polline e semi di qualità per l’apertura di nuovi impianti nei terreni confinanti, ancora vergini e aperti a queste semine. In futuro, se l’esperimento iniziale avesse attecchito positivamente, avrei anche potuto pensare a spingermi oltre, di là dalle cime di quegli alberi in lontananza.
Ma occorreva muovere un passo alla volta, per poi lasciare il pieno controllo senza la mia supervisione. E, non ultimo, non avrei dovuto perdere di vista il mio territorio di appartenenza, col rischio di sguarnirlo di prodotti locali per inseguire le chimere espansionistiche globali. Dovevo unicamente guardarmi da un vecchio e logoro sistema acquisito di posizione e di rendite parassitarie che inquinavano il terreno comune, apportando benefici ai soliti rami, precludendo la nascita di nuovi arbusti e impedendo ogni tipo d’innesto nel vecchio tronco consolidato.
Questi piani strategici di conservazione ed espansione, uniti al mantenimento e miglioramento della qualità, sommati alla sorveglianza del terreno da difendere, mi condussero a una frenetica attività quotidiana che comportò la dispersione di energie biologiche e nervose. Il risultato finale fu un esaurimento della linfa vitale.
Dopo anni a pieno ritmo, sopraggiunse il black-out che paralizzò l’attività e il mio stesso privato, così trascurato. Non ricordo una singola serata a guardare in pace la luna, a godere dei suoi influssi, un solo week-end di riposo all’ombra a bere e mangiare con gusto e spensieratezza. Tutto sacrificato al lavoro, al guadagno, all’ambizione smisurata che mi aveva portato a sconfinare oltre i miei stessi limiti organici. Non avevo un amico, una famiglia. Tutto dato in pasto al dio profitto e ora ne pagavo le conseguenze come un povero cristo qualsiasi senz’arte né parte.
Mi sentivo prosciugata, rinsecchivo a vista d’occhio, mi cadevano foglie e fiori prima del tempo, scivolavo verso terra. Furono chiamati degli esperti che ricorsero a interventi radicali, mi asportarono gran parte dell’impianto e quel poco che riuscirono a salvare fu sottoposto a cure drastiche. A sostegno fui circondata da corde come tante flebo ricostituenti, ricoprirono la base del fusto di torba e sassi vitaminici, sottoposero le radici a lavaggi di purificazione. Fui circondata da canne di bambù di contenzione per evitare un crollo improvviso.
Metà stagione trascorse nella mia convalescenza. A poco a poco cominciò a rigenerarsi la mia fibra, riapparirono le foglie, cominciarono a far capolino i primi fiori. Piansi dall’emozione: questo crollo nervoso mi aveva restituito la gioia della vita, apprezzavo piccoli particolari che fino allora avevo giudicato insignificanti. Veder sbocciare un piccolo fiore dal mio grembo mi faceva sentire parte del tutto, del mio giardino, della campagna, della natura, del mondo, dell’universo intero. Le api svolazzanti intorno, gli uccelli in volo planante, i vermi nella terra, le talpe nelle gallerie, tutto assumeva un significato nuovo, ogni particolare formava il tutto intero, cui ognuno contribuiva nella sua misura alla costituzione dell’infinito.
Quale meraviglia la luce e il calore del sole, la sua comparsa nel cielo e il suo tramonto spettacolare, le nuvole con la pioggia, il vento, la pace nel buio della notte. Quanti miracoli sono dispensati sotto il nostro sguardo cieco mentre la vita passa senza ritorno! Mi sentivo un’altra, avevo consumato metà o forse più della mia esistenza a inseguire idee di potenza folle e scriteriata. Avevo a disposizione ancora del tempo per non dilapidare incoscientemente il resto dei giorni che il signore del tempo e della natura, della Terra e dell’universo avesse voluto concedere alla mia umile figura.
All’approssimarsi dell’autunno, arrivarono nel mio sito tante mani che mi staccarono dalla rete, espiantarono dal terreno le radici, le avvolsero in un pane di terra contenuto, mi fissarono a canne di sostegno e ricollocarono in un vaso di coccio di medie dimensioni. Fui trasferita nel garage tra la catasta di legna e i vetri della finestra. Riempirono d’acqua il mio sottovaso, sparsero attorno al fusto due dita di letame e uscirono chiudendo la porta.
Poco dopo cominciò a piovere, le gocce ticchettavano sui vetri e sulla porta. Continuai a sentire il loro suono fin quando venne la sera e col buio la pioggia smise di cadere. Quella notte non ci fu la luna, nel cielo lì fuori.

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