Blog a cura di Francesco Strazza

Lettera alla vecchiaia

Sei arrivata senza che me ne sia accorto e a un tratto ti ho riconosciuto. Ti avevo già visto con gli altri ma avevo creduto che da me saresti stata lontana. Ben sapevo che mi avresti raggiunto, salvo che non fossi morto prima, ma è stato così tardivo questo nostro incontro che fino all’ultimo ho davvero sperato non avvenisse affatto.

Gli anni della mia giovinezza, giorno su giorno, si sgranavano ininterrottamente, statici nel loro cerchio all’apparenza eterno, soprattutto nel colore scuro dei miei capelli, nella barba nera di una settimana, nel bianco splendente dei denti, nel rosa acceso della carne. Neanche la prima comparsa di un capello bianco mi ha allarmato oppure la prolungata stanchezza dopo uno sforzo normale: ho preferito credere a una malessere passeggero.

Qualche segnale, non proprio visibile, l’avevo avvertito che stavi per raggiungermi definitivamente, quando ad esempio ho pianto silenziosamente lacrime amare davanti a ragazzi che schiamazzavano festosi nell’acqua di una piscina. Era solo un film, la cui visione sullo stesso schermo non avrebbe più proiettato la mia gioventù sfumata. Non ho voluto credere che fossi comparsa anche a me, come la madonna a un eretico, che il limite era stato superato, che viaggiavo sotto falso nome in un territorio proibito. Non ricordo precisamente quando sia avvenuto il passaggio, ma a un certo punto mi sono dovuto arrendere alla tua barba bianca, ai capelli radi, alla tua pelle grigia: ormai regnavi con evidenza.

Gli anni erano trascorsi con una lentezza senza pari, come a esigere il diritto di restare per sempre lontano da te. Accumulavo i giorni senza contarli e quando ho cominciato a farlo, non erano già più gli stessi. Infine la lentezza è sparita velocemente e sono atterrato su questi altri giorni che mi attendevano pazientemente da una vita. Ho capito che tutto era avvenuto in un lampo, senza scampo: quegli anni si sono volatilizzati in un soffio d’aria. Mi sono ridestato dal lungo sonno senza poter fare più nulla, passando in questa veglia naturale.

Eppure tu, mia cara vecchiaia, non mi hai mai spaventato prima perché ti ho sempre visto con gli altri, erano loro che se n’erano fatto carico dispensando me e lo avrebbero fatto ancora. Sarebbe potuta arrivare perfino la morte ma tu eri sempre di là a venire. Non ti ho neanche potuto immaginare fino al momento in cui finalmente hai varcato il confine e ti sei presentata direttamente, non più di riflesso come in passato. Ti ringrazio per non avermi fatto illudere che non mi avresti più raggiunto, grazie per essere venuta, tu, ancora giovane da reggerti sulle gambe, per esserti svelata con un sorriso ingiallito, per non avermi fatto sentire uno stupido mentre mi aiutavi a rialzarmi da questa caduta improvvisa. Grazie per aver finto di essere sempre stata al mio fianco.

Ora che ti sei seduta stabilmente su di me, col tuo respiro tranquillo e regolare, sta forse scomparendo ogni segno d’impazienza? O d’incanto la debolezza si tramuta in placida forza? Come per magia, i tuoi movimenti lenti e misurati agguanteranno più strada dell’illimitata velocità sfrecciata in un attimo? Quel che resta delle mie paure ancestrali lo discioglierò nella tua costanza coraggiosa?

E adesso cosa mi toglierai, che non avrà più lo stesso sapore? il caffè, il vino, il fumo, la carne, il dolce? E cos’altro non sarà come prima? il sesso, gli occhi, le ossa, il sangue, i muscoli? Che cosa ancora non si rinnoverà? l’incoscienza, l’entusiasmo, lo stupore, l’impulsività? E cosa mi mancherà in tua compagnia, da non riconoscere più chi sono stato? E tu chi sarai, la mia vecchia amica o una nuova nemica? Aiutami quando tutto diventerà difficile, non è stato facile prepararmi al nostro appuntamento. Ora sono qui, dammi la mano e teniamoci forte nei saliscendi che ci aspettano: siamo tuttora all’inizio, come sempre.

Sto guardando le mie foto al mare da bambino: il doppio mento, le piccole braccia flaccide, il ventre tondo e gonfio, lo sguardo corrucciato e assente. Mi stavi aspettando già allora nella mia completa inconsapevolezza? Se la mia natura dovesse fare il suo corso fino in fondo, completerò il giro della ruota con le sembianze di quel moccioso, non emanando tuttavia profumo di borotalco?

Ti ho indossato come un vestito un pezzo alla volta per dissimulare la realtà che prendeva lentamente forma, fino al giorno che, davanti allo specchio, ti ho visto col tuo gessato grigio fresco di naftalina, stirato alla bell’e meglio, che mi calzava alla perfezione. Potrebbero aggiungersi ulteriori orpelli ma al momento per cappello, pillole e bastone c’è ancora tempo. Mia cara, fossi davvero un semplice vestito, potrei immediatamente sfilarmelo lasciandoti appesa altrove, prenderei freschi bermuda, calzerei comode infradito, mi metterei a torso nudo. Ma non è possibile, è probabile una polmonite, rischierei di inciampare nei miei stessi passi. Oramai il percorso è stabilito nel cammino e anche nella divisa col pettorale numerato: una volta superata la partenza, non rimane che l’arrivo senza possibilità di ritorno.

Così come per tanti anni non ti ho visto, oggi non c’è un solo giorno che non mi ricordi di te. Talvolta, affondato e perso nel mio sguardo, a tavola o a letto ignoro il tuo aspetto, ma le conseguenze di ogni presunto eccesso mi riportano disfatto ai tuoi piedi, a implorare che possa allontanarti solo un attimo, che possa dimenticarti della mia esistenza come io cerco inutilmente di fare della tua presenza.

Ogni giorno trascorso con te, ho l’impressione che tu ci sia stata comunque, che quello che mi hai fatto diventare sia l’unica verità. Oggi, assieme a te, credo davvero che non sia esistito nient’altro nella mia vita: tutto ciò che possa essere successo prima, non è accaduto realmente a me. Non ho riconosciuto la giovinezza in corsa, tu stessa seduta ai lati della strada mi hai mostrato i documenti.

Mi spaventa tanto che negli anni a venire possa dimenticare me stesso, cancellare la memoria, disperso nella nebbia senza soccorso, lasciando in bella vista soltanto te a custodire le mie spoglie, un bianco fantasma senza lenzuola, ecco cosa sarà di me quando tu avanzerai senza pietà. E l’epilogo inevitabile quale sarà? Miliardi di vite che mi hanno preceduto non m’insegnano nulla, quando si rivolgono a me mi lascio travolgere dall’ignoranza.

Mi presenti giorno per giorno il conto dei miei abusi e non serve a niente ricordarti che non posso assumermi i peccati di chi è sparito di colpo. Non mi lasci reclamare l’innocenza ma concedi clemenza almeno alla carne che sta scontando la pena.

Tu potresti essere il pezzo più estensibile della mia scala, perfino della mia adolescenza gioventù e maturità messe assieme, la serie di pioli più lunga. Temo però che la salita sia terminata da un pezzo e la discesa che ne seguirà non sarà affatto agevole. E quando avrò raggiunto l’ultimo gradino, mi mancherà sicuramente il terreno sotto i piedi mentre spiccherò l’ultimo salto verso il fondo. Neanche tu potrai evitarlo. Grazie comunque di essere venuta, infine.


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